La Poesia non ci salverà 1
Siamo
consapevoli della follia della vita. Perciò scriviamo. Sapendo che la parola
non cura, intravvedendo la guarigione, assecondando la morbosità.
Nell'arte o, meglio, nell'atto creativo,
la pena coincide con la cura: la pena è quella che viviamo ed attraversiamo, è
nella dimensione dell’Essere, nel trascorrere tragicomico degli eventi; la cura
è nella lucida consapevolezza della follia della vita, che non vogliamo rinnegare.
La narrazione poetica è il luogo
della cura.
La poesia e la scrittura sono
salvifiche non come mero sfogo personale, ma perché per loro natura mostrano un
orizzonte più vasto, una dimensione “altra”
che può comprendere, e persino elevare e salvare, la follia
dell’esistere, senza normalizzarla.
Perciò io difendo il diritto alla cura,
ma anche quello alla morbosità.
Si scrive stando nel mezzo, come sospesi
su un ponte che unisce le sponde, intravvedendo da lontano la guarigione: non
si potrebbe mai più scrivere, una volta attraversato “il ponte”, perché solo da
lì lo sguardo vede, comprende e tiene insieme le due sponde.
Così, sospesa sta la sentinella: il
poeta che considera e vede.
Il poeta è veggente: viaggia
pericolosamente dal “di qua” al “di là”, conoscendo la strada.
Nella malattia il dolore è inutile,
sterile, non si può narrare dunque non diventa arte, perché la vita nella
malattia è un surrogato.
Nella guarigione il dolore, come
anche l’ispirazione, vengono richiesti in modi e in tempi stabiliti, che non
sono quelli dell’arte.
Nel purgatorio della poesia c’è
liberazione, il dolore è compreso, ma modulandosi e decantando diventa
compatibile con la realtà.
Perciò bisogna vivere molto, stare
tra la gente, riempire il ponte di presenze e di colore per poterci restare
senza parlare solo di sé stessi.
La Poesia non ci salverà 2 – Noi salveremo la poesia.
Valeria Raimondi con "Io no (Ex-Io)" Thauma Edizioni |
Poi,
siamo tutti dannati, da prima. Condannati alla smemoratezza dell’oggi sapendo
che altrove si cela la risposta, in altro tempo si pone l’esatta domanda.
Si
parla la poesia prima di scriverla, ma prima ancora si vive, si pesa, si soffre:
poi si cuce con quel po’ di vivo tessuto, si scava di fretta, a mani nude, si
va giù di scalpello, levando dal marmo l’eccedenza, dalla scorza la polpa.
Talvolta,
penso, possiamo salvarla noi. la Poesia. La salveremo forse. Tacendo.
Lasciando
parlare le vite, le storie, cessando quest’uso improprio della parola, questa
scandalosa emorragia, smettendo di scrivere.
Non
abbiate paura di ciò che introducete, ma di ciò che esce dalla vostra bocca.
Parola di vangelo, Luca credo. Amen.
Così,
talvolta mi condannerei personalmente a un ergastolo di silenzio, non per una
colpa, per un’intenzione! Espiazione: rinuncia. Sì, il mio tribunale fa
continui processi per direttissima e la difesa si mostra debole, l’alibi
inconsistente: il piacere narciso di leggersi, contemplare inchiostri, tracce,
parole è sempre in agguato.
Mi
autocondannerei per questo, lo so, ma anche nell’altro caso, la rinuncia
intendo, non meriterei proscioglimenti. Sempre all’erta l’impietoso mio
giudice. Nuovo capo d’imputazione: incoerenza
Ma
infine colpevole di che? Di un’intenzione?
Infilassimo
oggi ogni colpa, una dietro l’altra come perline su un filo, ne usciremmo
innocenti come la bugia di un bambino, come un ladro per fame. Posso al massimo
dichiararmi responsabile di ciò che ho detto, di ciò che ho omesso, del
parlare, del tacere, delle contraddizioni, delle ispirazioni visionarie, delle
aspirazioni incoerenti, dei falsi pudori, dell’andare con ritrosia a ritroso,
del vizio letterario pubblico, delle virtù private coltivate in silenzio.
Dunque
non sono io che pecco: è la poesia che mi tiene sul filo sottile, infido del
dire-non dire, del senso letterario-letterale, del dare scandalo o tacere.
Vivere o scrivere.
Dunque
a mia discolpa questo solo posso dichiarare: la poesia è un imperativo,
un’urgenza, un demone che muove l’istinto, ha in sé il germe del cambiamento, è
macchiata di futuro, dunque è una rivoluzione che non possiamo non fare.
Non
ci salverà personalmente, a meno che non ci salvi, tutti.
Angye Gaona: poeta, donna, colpevole di poesia
Avevo
solo le mie parole.
Ma
le mie parole fendevano
il
ventre molle del potere,
allora
mi cucirono le labbra, mi vestirono
delle loro colpe
infami,
dei
loro abiti lerci.
Avevo
solo le mie parole, leggère
ma
le mie parole facevano troppo rumore,
come
sogni colorati, e coprivano i loro spari
quindi
le imprigionarono dentro mura mute
perché
altri non sognassero con me.
Avevo
solo le mie parole, crude
puntate
sulla loro vergogna
e
le mie parole squarciavano il velo osceno,
e
fu allora che tagliarono la mano
che impugnava la
lama.
Avevo
solo le mie parole, appena
nate
che
si alzavano in volo nella loro fetida aria
e
allora mi tolsero l’aria,
mi
rinchiusero affinché respirassi la loro.
Avevo
solo i miei versi, liberi,
e
la mia verità si aggrappava come edera
ai
loro piedi piantati nel fango
divenni
dunque la più forte delle minacce
e
misero a tacere me, la libertà e la poesia.
Avevo
solo le mie parole innocenti, di poeta, di donna
ma
poiché la poesia urla nel silenzio assordante
e
come una donna può partorire figli
e può seppellire
i morti,
delle
mie parole ebbero infine così folle paura
che
vollero ricacciarmele in gola.
Ma
non posso ancora tacere.
Ho
solo le mie parole, fatele vostre.
Perché
si sappia di che stavo parlando.
Perché
ho sempre detto solo ciò che da qui ho potuto vedere.
Valeria Raimondi
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