Nota dell'Autrice
C’è stato un tempo, quello
compreso tra la fine della guerra e gli ultimi anni del Cinquanta, in cui non
ho fatto che viaggiare. Le cose viste - uomini e paesi – le ho viste sempre
deformate dalla sofferenza, dall'ansia, come da veloci illusioni di tregue e
riposi. Il mio problema di fondo era sempre il problema «economico»: un
eufemismo per non dichiarare troppo apertamente la questione della
sopravvivenza fisica. Dunque, dopo la guerra, ancora questioni di sopravvivenza
fisica. Tutto questo per indicare dove, in questi scritti, come in altri andati
dispersi o pubblicati distrattamente, nascono tensione, solitudine, fuga e
quella costante sensazione di «disastro», o prossimità del disastro, che li
rende forse, a un casuale lettore d'oggi, di non trasparente lettura. Chiaro
che il «disastro» era mio. Ma anche vero che le situazioni di disastro, quando così
tanto prolungate, possono suggerire il sospetto - dico almeno il sospetto - di
un corrispettivo disastro del tempo «umano», non sempre visibile - come da un
treno in corsa un paesaggio - intorno al protagonista. È che il mondo - come lo avemmo consegnato dalle buone letture
scolastiche - una volta usciti da un finimondo come quello bellico, e caduti in
un ultramondo - il predatorio, l’insaziabile, il fantastico-banale - tutte le
coalizioni del Nulla atte a raggiungere quella sublime Mediocrità, che è stata poi
raggiunta - quel piccolo mondo ancora di razza umana, una volta usciti dalla
Grande Paura, e marciando verso la Fraternità e la Pace , non c’era più. Già nel decennio Cinquanta,
non c'era più!
Non auguro a nessuna persona
giovane e vagamente «dissociata» come io ero, e inoltre priva di reddito e anche
dì minime certezze personali e professionali - di attraversare l’Italia in un
dopoguerra subito privo di unità e memoria - come io l’attraversai. C’è da
uscirne spezzati. Tutto vi sembra estraneo, meraviglioso e spietato insieme:
siete in casa d’altri. Ecco la sensazione che vi mangia il cuore, mentre
correte da una casa all'altra, e anche, spesso, da una Bandiera all'altra. Casa
d’altri! E dovunque cercate un cantuccio, e fisionomie antiche, e almeno una voce
rassicurante; e quella voce suona sempre dietro un muro, sempre al di là di una
parete invalicabile! Ma non ho altro da aggiungere, o spiegare - e sarebbe
ingenuo il pensarlo - sul perché vidi Roma, o altre città, come appunto le
vidi: straniere, accese, inesplicabili! È
che cercavo qualcosa, strade e case, in cui riconoscermi e riposarmi; e questo
qualcosa non c'era più.
Di Roma, oggi, e di tanti altri paesi
e persone, non mi fermerei più a spiare le pur tremende diversità dal giusto,
né i dolorosi eccessi, né, assolutamente, attribuirei a persone, o gruppi di
persone, o a idee, l’origine di quella luce obliqua e «selvaggia» che vedo
ancora coprire, come una coltre di fumo la Terra. È
chiaro che il piccolo disastro di vivere è collocato proprio nel non vivere, ha
le radici là dentro, nella non-umanità del vivere universale. Quindi, niente
grandi responsabilità di fondo per nessuno. Ma è pur vero che rendersi conto di
ciò - rendersene conto a tutti i livelli - e tentare di riconsegnare la vita a
un ordine e una bontà (o almeno gentilezza) umana, cambierebbe poco alla volta
il peso dei problemi; e il malvivere comune, l’ignorarsi e l'odiarsi, l'andare
sbandato delle generazioni, e il loro precoce ripiegarsi nella più atroce
inutilità sociale, che oggi sembrano mali così irrimediabili, assoluti, mali
assoluti, alla fine, non sarebbero più.
E rimane dunque - questa
auspicabile decisione - di città e uomini - di cercare ciascuno nel «disordine»
universale, la propria seconda natura, intendo la lealtà, l'ordine, la
compassione, il benefico rapporto umano, - la luce umana, perché ci guidi -
rimane questa, oggi, la mia sola modesta filosofia. E anche inclinazione «politica»,
se si vuole.
Anna Maria Ortese
Dette le profezie {e quindi
puntualmente avverate), consumati i ricordi (e come non citare qui il fiabesco
sogno, la nitida quasi puerile memoria di un amore de Il cappello piumato?), il
silenzio sembra imporsi all'Autrice come una monumentale, splendente scultura. Eppure noi con umiltà vogliamo pregarla di non rinunciare a dire, a pescare in
fondo al pozzo lunare dell'anima ancora parole, ancora immagini fantastiche, come fu per L’Iguana.
Ma veniamo ora, con attenta
modestia, agli esempi di una visionarietà profetica che, a volte, si fa
addirittura (e parrebbe assurdo) analisi/previsione politica, che altre volte
semplicemente individua il punto di non ritorno del processo degenerativo cui
sta per essere sottoposta una città, che, magari, prelude ad una tragedia sociale
di dimensioni certamente insospettabili, ai tempi in cui il racconto fu
scritto.
Così, ne L'uomo della costa, Anna
Maria Ortese, riferendo le parole di uno strano intellettuale o marinaio, personaggio
forse simbolico. ma forse no, con cui ha appuntamento in un caffè di
Trastevere, scrive: "...Su quella barca si poteva affrontare il vuoto del
nostro tempo la straordinaria Non-Memoria del mondo attuale, la sua anima di
Niente (il Niente era già al governo, avvertì)…
Ecco, come prevedere meglio - con
efficacia quasi da politologo – il ristagno istituzionale italiano, fra un PCI
imponente ma non "autorizzato" a governare, e una DC immanente e
inestinguibile come lebbra?
Con il libro precedente, Il treno russo, l'Autrice ritorna a pubblicare |
Impossibile dire meglio, negli
Anni Cinquanta, il futuro “balcanizzato” di Roma, finalmente esploso nelle stagioni
più recenti, in un crescendo di terrorismi mediorientali e paesani, incrociati.
Ed ancora Anna Marta Ortese insiste, nella consapevolezza che “lo splendore
della città non è sano, non è dovuto a una crescita organica, è invece il
verde splendore di un disfarsi organico". E qui è l’annuncio del proliferare
mostruoso della banlieue, dell'intasarsi, ingorgarsi dei traffico senza più rimedio,
dell’ingabbiamento perenne, o del crollo inutilmente annunciato, dei monumenti
romani.
Ma è in Estivi terrori che
l’Autrice, innocente e terribile, descrive la ragione non esistenziale,
sottolinea, ma cosmico amministrativa, per cui oggi, nell'Italia del (quasi)
1990, gli sfrattati, i senza casa per sfratto, sono diventati un irresolubile dramma
collettivo, una mina politica, una riserva importante di tensioni sociali.
“L’angoscia, mi dissi - scrive
dunque Anna Maria - per lo meno la madre delle angosce, viene semplicemente dal
governo: un governo che rappresenti solo due o tre cittadini, mette automaticamente
gli altri novantasette in angoscia, e la ragione è chiara. Mentre quei due o
tre avranno radici ben salde nel terreno, cioè nella legalità... gli altri
novantasette, privati morbidamente di tutto questo, non avranno
diritti...".
E continua: “Abbiamo qui, se non
baglio, un territorio di 301.249 chilometri quadrati: [……] Su questi
trecento milioni, i nativi, o abitanti, sono cinquanta (milioni cinquanta)
dunque (sempre per dire), sei metri quadrati è la quantità esatta di metri per
ciascun abitante. Ciò significa esattamente che a ciascun abitante – pastore, manovale,
e anche principe, non importa - toccherebbero di diritto, gratuitamente, metri
quadrati sei, e su questi sei metri quadrati avrebbe diritto di costruire, se
vuole, un locale. Può farlo? No. [……] Almeno, questa è la risposta, […....] Ma
chi è allora: “Che ha venduto i miei sei – o seicento – metri quadri di terra,
con l’alba di aprile, l’ossigeno, le farfalle e tutto?...”
Innocente e terribile, come
terribile è la Giustizia ,
Anna Maria Ortese aveva scritto, descritto, il dramma degli sfrattati prima
ancora che assumesse, come oggi ha assunto, dimensioni imponenti. Chi ha
venduto le sue farfalle, allora? Chi, oggi, si sente impegnato a restituire a
lei, e alle persone come lei, quella giustizia, quella solidarietà che,
innestate, nel suo caso, sopra un autentico talento di scrittrice, produrranno
ancora il miracolo della pagina?
Chi, altrimenti, se non Anna
Maria Ortese, può salvare la memoria dei suoni, dei profumi scomparsi,
l’acciottolio delle carrozzelle romane sulle selci, l’odore greve dei poveri
scompartimenti degli “accelerati”, quel modo antico di viaggiare, con il pane e
la frittata avvolti nel foglio di carta pesante, gialla, di cui perfino gli
emigranti meridionali ormai hanno vergogna?