Da "Estivi terrori", libro edito da Pellicanolibri nel 1987, questo è il quarto e ultimo dei racconti
Di questi giorni (giugno sta per
finire, siamo o dovremmo essere alle porte dell’estate), c'è un gran daffare
sulle strade ferrate e sulle autostrade, negli appartamenti e nelle portinerie
della penisola: treni e macchine stipati fin sul tetto, gente che parte, gente
che arriva. Appartamenti disfatti in città e, al mare o in montagna, alloggetti
che assumono rapidamente un aspetto confortevole, vacanziero: nelle portinerie
di città, saluti, mance, raccomandazioni febbrili, e in quelle del mare (gli
italiani preferiscono il mare, ma estivo), presentazione di nuovi venuti,
vestiti da pagliaccio, con camiciole a fiori, calzoni di raso, o alla
“sceriffo”, di tela; ai piedi, indifferentemente, zoccoli di legno e sandali
sofisticati, scarpe di pezza o ciabattine d’oro, d’argento. E occhi cerchiati
di stanchezza, ma già avidi di nuove conoscenze, di balletti e divertimenti
vari. Il denaro corre a fiumi, i gelati anche, la musica facile scoppia
dappertutto, il vostro vicino parla e vi accade di non sentire quello che dice.
Monti e mari passano come in un sogno.
Viaggio anch'io, non diretta al
mare, ma semplicemente verso un’altra città, in questo caso la capitale, dove
fantastico di passare in silenzio questi mesi estivi (non c’è niente di meglio,
per il silenzio, che una grande città abbandonata; ma non deve essere quella
dove abbiamo trascorso l’inverno, e in ogni caso occorre che sia lontana dai focolai
dell'industria). Sono in treno da varie ore. e cerco di ricordarmi che non
bisogna assolutamente sprecarsi, ma limitare i movimenti, i pensieri e le spese
al minimo. Perciò, niente uscite in corridoio, niente cenni comprensivi e sorrisi
ai discorsi della gente sulle tasse, il tempo, le donne, niente caffè, panini e
acqua minerale, che fra l’altro portano via interi biglietti da mille. Me ne
starò zitta, insensibile, disattenta.
Tuttavia, quando appaiono nel
tramonto le prime grandi case di Roma, e il treno comincia a rallentare, non
posso non accettare l'aiuto del ragazzo che mi mette giù la valigia; ma, con
questo aiuto, mi sono consegnata subito, moralmente all'umore del mio vicino,
ch’è portato alle confidenze. E me lo ritrovo così a fianco, sullo stesso
autobus, intento a raccontarmi senza cautela la propria vita.
Ha un po’ di terre (vorrei
crederci!), ma il lavoro in campagna non gli piace; non gli piace neppure il
lavoro a Roma. Gli piace Roma, questo sì. E andare, venire, conversare con gli
amici, l’estate specialmente. Soldi ne ha, per permettersi questa vita. Così,
se vogliamo incontrarci un’altra volta...
Una farfalla marrone, sul vetro
fisso di un finestrino, cammina come cieca, cercando un’uscita. Ha le ali
accostate al corpo, è stanca, forse non ci vede più. La mano del ragazzo, come se
fosse munita di cento piccoli occhi, si dirige lentamente, quasi a insaputa del
suo cervello, verso l’insetto, sta per catturarlo e gettarlo a terra, dove
troverà il piede
.
«Così, se vogliamo incontrarci
un’altra volta...».
Guardo i suoi piccoli occhi
incassati, foschi, la sua piccoli faccia da volpe (ho visto intere famiglie
così, sui Monti Cimini), e mi rendo conto che la vita della farfalla è in
imminente pericolo. Capisco anche che con tanti cittadini in pericolo, o già
morti, per mancanza di un altro dito di fronte, è crudele interessarsi ad una
farfalla. Ma è più forte di me.
«Vediamo un po'...», dico, e
intanto lo conduco verso l’uscita. La folla ci divide, gli sportelli si aprono,
e io scendo rapidamente.
Ora sono alle falde di uno dei
colli (di Roma) più celebri per la fresca aria, e il bianco accecante delle
case sulle ultime strisce di prato o terreno incolto. Il rosa del cielo va
mutandosi in un azzurro-verde, fra poco brilleranno le prime stelle. Gli
stereotipati bar mandano fuori dalle porte a vetri lunghi rettangoli di luce,
attraverso finestre e balconi si vedono i lampadari non troppo moderni (mille
gocciole dì luce o tre orchidee capovolte), i mobili nuovi, completamente privi
di polvere e d’immaginazione; e si avverte un rumore leggero di stoviglie, che
qualcuno va disponendo sulla tavola, perché sono passate le otto, insieme alla
solita voce dell’annunciatore del telegiornale. Molti schermi brillano; qualche
pianta, innaffiata da una vecchia signora, da un terrazzino sgocciola sul
marciapiede.
Entro in un bar, mi faccio dare
qualche gettone, e telefono alla signora Emma.
Sono in trattative da cinque mesi
con la signora Emma, per il subentro nell'appartamento che lei lascerà domani o
domani l’altro, la signora Emma è una donna paffuta, bonaria, sempre in giro
per conferenze, molto colta. Ha un’eloquenza lenta, svogliata, un bel sorriso
e, grazie a Dio, non le manca da vivere. Ha comprato, ora è poco, un grande appartamento
su questa collina, e conta trasferirvisi adesso. Ma il vecchio contratto dura fino
all'anno prossimo, e perciò lei si è preoccupata di trovate un inquilino che la
sostituisca fino a quel tempo. Penso di adattarmi nell'appartamentino
servendomi per mobilio di una brandina che avevo lasciato in custodia, l’anno
scorso, alla signora Emma. In più, comprerò un tavolino da spiaggia e qualche
sgabello.
Al telefono, purtroppo, apprendo
alcune novità che non avevo previsto. Primo, la migliora Emma è sdegnata per il
mio ritardo. Secondo, la signora Emma si trova già da ieri sera nel nuovo
appartamento, e non ha tempo da dedicarmi.
Terzo, né la signora Emma né suo nipote possono accompagnarmi domattina
all’amministrazione dello stabile, perché partiranno all'alba per Ischia. Quarto,
infine: la chiave dell’appartamento in questione è in mano del nipote della
signora Emma. che ora non c’è, rientrerà molto tardi. Morale: attendere.
Confesso che avrei voluto vedere
il nuovo appartamento; sembra che dalla sua immensa terrazza, nei giorni
limpidissimi, sia visibile, all'orizzonte, il mare di Ostia. A parte questa
speranza di vedere, sia pure da lontano, un po’ di mare, avrei gradito entrare in
una casa e riposarmi qualche momento: è lunga la Milano-Roma , e la città
di Roma è forse più grande, in questo tramonto, di quanto la Milano-Roma sia lunga.
«Puoi andare da mia sorella, se
hai voglia di aspettare», dice dopo un po', con uno sforzo notevole, la voce
della signora Emma.
La casa della sorella è da queste
parti, una delle tante case di lusso che divorano la collina, con sepolcrali
terrazzini fioriti, il soggiorno diviso in due da un arco, e, sulla parete di
fondo, il televisore acceso. Per il resto, profondamente buia e in ordine. Danno
Tristi amori, e quando uno ha viaggiato
dieci ore, col sole, non è in grado di capire se siano veramente tristi, e non
ci sia per caso, dell’esagerazione, e anche la regia e gli attori lo lasciano
indifferente. (La verità è che i sentimenti, belli o brutti non riescono più a
far dramma, tutt'altro: se uno è pieno di sentimenti, significa che ha risolto
da un pezzo, o non li ha mai avuti, i problemi economici, e allora l'orrore di vivere
non è neppure sfiorato, e parlare di dramma fa ridere). Lo sguardo va continuamente
dal televisore al balcone spalancato sul cielo nero della capitale: limpido e
fitto di stelle, trabocca di luci come le Agenzie del Turismo traboccano di
nomi di località balneari, di grandi alberghi, di nights pieni di gente in
zoccoli d'argento. (E, a proposito, la farfalla non sarà stata schiacciata?).
Apprendo che anche la sorella
della signora Emma, una distinta vecchietta che evita di guardarmi, parte
domani per il mare, e perciò non può ospitarmi neppure per una notte, tutti vanno
al mare, di questi tempi, tutti partono all'alba, e non c’è un minuto di tempo
da perdere. Così è.
A notte avanzata, chiamano al
telefono, e dopo un po' ecco qualcuno arrivare con le chiavi dell’appartamento
vuoto, e avvertirmi che posso entrare. Il mese di giugno non è stato pagato,
sarà mandato l’importo da Ischia. All'amministrazione dello stabile dovrò
andare io, da sola, e cercare di avere il nuovo contratto. Ma se non me lo
concederanno, niente preoccupazioni: rimarrò ugualmente nell'appartamento e
verserò l’affitto alla signora Emma. Purtroppo c’è una cattiva novità: la luce.
Domani verranno a staccare la luce: ordine della signora Emma. La signora Emma
dice che potrò rimediare con qualche candela, e date le mie risorse, sarà più
conveniente. Del resto, in questa stagione, come a Leningrado, dove la signora
è stata, le notti sono brevi e l'alba arriva alle quattro e mezza.
Nella nuova casa, vado in giro
per un po', osservando tutto, e cercando, nel mio inconscio, una sedia. In
cucina, il vetro del balcone pende spaccato in quattro, pericolosamente. Cerco
di uscire sulla terrazzina: ingombra di calcinacci e pezzi di cemento, perché
il lavatoio è stato divelto e portato nel nuovo appartamento. Esco da un altro
balcone, e percorro su e giù la terrazzina cercando con gli occhi la collinetta
di faccia, il vasto terreno delle suore col nuovo edificio rosso, che tanto
m’incantava una volta: l’edificio è spento, il terreno, nell'oscurità, sembra
incolto. Ma da una casa di abitazione sul limite della strada, viene un fascio
di luce, si ode lo strepito allegro di un grammofono, si vedono ombre inseguirsi
come in un Luna Park, e anche sui davanzali sono sospesi grossi lumi. Si balla.
Mi ricordo che anche l’anno
scorso, quando ero a pigione dalla contessa N., in quel lungo autunno che
passai nella sua anticamera a Monte Mario, la musica da ballo non smetteva mai.
La prima cosa che faceva la figlia della contessa, svegliandosi a mezzogiorno,
era allungare un braccio e mettere in moto il giradischi. Era una giovane
bellissima, una figura da affresco pompeiano, ma non aveva forza. O dormiva, o
ascoltava i dischi, guardando tutto con due meravigliosi occhi sonnolenti. Ogni
domenica sera, poi, venivano in casa più di una ventina di suoi amici
personali, ragazzi e ragazze che non avevano preoccupazioni di denaro.
Passavano dall'ingresso secondario, perché l’anticamera era occupata da me, e
li sentivo ridere e ballare e bere fino all'alba. Poco dopo che erano partiti,
faceva giorno, e le scale si riempivano dei passi precipitosi e delle voci degli
scolari che andavano alle lezioni, e delle serve che uscivano per la spesa. Non
passava mezz'ora, e questa o quella signora, sulla porta, richiamava ad alta
voce il cane o si fermava a parlare a lungo con la vicina, lamentandosi di non
so che. Come niente si arrivava a mezzogiorno, l’una: e di nuovo, serve.,ragazzi, grammofoni, stoviglie, poi il gioco del pallone nel cortile. E insomma
non si poteva mai dormire, né leggere, né scrivere, né far nulla, sempre con la
preoccupazione di sentire un urlo, o la porta che sbatte, o il cane che ha
visto il gatto, o i ragazzi che devono giocare, o il telefono, o musica su un
tono altissimo, o conversazioni d'amore. E queste, da una finestra all'altra,
duravano più di tutto. E non erano allegre.
In quel tempo, come del resto in tutti
i tempi, io non avevo molto denaro, anzi non ne avevo affatto: lavorare in quel
viavai, era sempre più difficile, così non riuscivo a pagare l’affitto
dell’anticamera (ventimila lire), e insomma mi trovavo in difficoltà. Da queste
mi tolse, impensatamente, la contessa N. Una mattina venne da me, e mi disse
che l’anticamera le serviva, me ne dovevo andare al più presto. Aggiunse che a suo
parere io non avevo molta voglia di lavorare, perdevo tempo, e la mia
situazione faceva paura. Non avevo nulla da obiettare, perciò riempii di nuovo
le mie valigie e le trascinai faticosamente fino alla portineria della signora Emma.
Allora la signora Emma non aveva raggiunto ancora l'attuale prosperità, viveva
con una certa modestia e mi accolse perciò umanamente. Tutto questo mi
ricordava la musica da ballo, nella bella notte di Monte Mario: e tutti questi
meravigliosi appartamenti, e tutta questa bella gente in festa, tutto questo
benessere e questa sicurezza e questa felicità, uscite dal nulla - mirabilmente
- dalle quali io ero esclusa automaticamente, per nascita - che non mi spettavano:
e insieme l'idea del deserto che sì stende al di là dei colli, fino al mare,
non mi lasciavano. mi stringevano oscuramente il cuore.
Mi coricai con tutte le luci
accese, anche quelle della cucina e del bagno, come per una necessità di veder
chiaro, di fugare ombre e terrori, che erano invece solo nella mia mente. La
brandina di tela era tutta ammuffita. e così, priva di lenzuola, il suo
contatto con la pelle risultava sgradevole; ma più che dalla scomodità ero
tenuta desta da pensieri tormentosi.
Un mio amico francese, l’anno
prima, mi aveva prestato un libro di Kierkegaard, e lì era detto tutto
sull'angoscia. Ed ecco che, di colpo, Kierkegaard mi sembrava completamente
fuori strada, con la sua teoria dell’angoscia come conseguenza (esclusiva) del
peccato. L’angoscia, mi dissi, per lo meno la madre delle angosce viene
semplicemente dal governo: un governo che rappresenti solo due o tre cittadini,
mette automaticamente gli altri novantasette in angoscia, e la ragione è
chiara. Mentre quei due o tre avranno radici ben salde nel terreno, cioè nella
legalità, cioè nella socialità, gli altri novantasette, privati morbidamente
di tutto questo, non avranno diritti che non siano immaginari, vivranno sempre
in mezza realtà, si crederanno ombre: ed essendo la loro buona fede (o
debolezza) infinita, mai oseranno dichiarare al governo il loro diritto a un
diritto autentico, non formale, ad una realtà di cose e non di parole. Ed una
volta rinunziato ad essere cittadini autentici ecco non si è neppure uomini
autentici, professionisti autentici, cristiani autentici e così via. Perché la
realtà base, perché un uomo possa diventare un uomo, è quella civile, e
comporta dei doveri che tutti abbiamo, ma anche dei diritti, che sono invece di
due o tre persone. E a non capirlo, nasce la sensazione continua di essere
trasportati, o spostati in eterno, come su un tappeto magico, che è l’arbitrio
dei pochi. Il difetto di Kierkegaard applicato, per così dire. al Mediterraneo,
o per lo meno all'Italia, stava nel dare a questa alienazione una radice
cosmica, e soltanto cosmica, mentre era per buona parte amministrativa, e
avrebbe potuto porvi rimedio un onesto contabile.
Premio Rapallo, seconda classificata col Treno Russo: in qualche modo ricomincia l'attenzione verso di lei |
Vediamo, vediamo un po’, mi
dicevo, prendiamo il nostro caso, prendiamo questo pezzetto di terra dove siamo
nati. Abbiamo qui, se non sbaglio, un territorio di 301.249 chilometri
quadrati: quanti metri sono? Non lo so, non ho studiato, e poi sono troppo
emozionata per fare il conto a quest’ora, ma ugualmente sì può procedere. Facciamo
- solo per dire! - che siano trecento, milioni trecento di metri quadrati. Su
questi trecento milioni, i nativi, o abitanti,
sono cinquanta (milioni cinquanta): dunque (sempre per dire), sei metri quadrati e la quantità esatta di
metri per ciascun abitante. Ciò significa esattamente che a ciascun abitante -
pastore, manovale, e anche principe, non importa - toccherebbero di diritto,
gratuitamente, metri quadrati sei, e su questi sei metri quadrati avrebbe
diritto di costruire, se vuole, un
locale. Può farlo? No. perché il territorio è dello Stato. Almeno, questa è la
risposta, mentre la verità è che lo Stato possiede solo qualche sasso e pochi
fili d’erba. Per il resto, montagne intere, regioni con boschi, con laghi,
foreste bellissime attraversate da un fiume pieno di pesci, e
contemporaneamente anche spiagge, e tonnellate di mare blu, e fette immense di cielo
con inserite albe purissime - con ossigeno e canti di uccelli e gioia senza
fine - appartengono esclusivamente alla signora Rossi con le due figliolette e
il fratello fine letterato. Nelle città lo
stesso: sorgono quartieri di lusso, ville stupende, parchi magnifici vengono tagliati per favorire
l’insediamento di condomini simili a sogni, e uno che passa (col sacco in
spalla e i piedi pieni di polvere, ed è stanco) si mette a guardare, e dice:
«ma chi gliel'ha data?» (tutta questa terra), e poi si accosta e fa: «per
favore, questa terra era anche mia, ridatemi la mia parte». E loro ridono, e
dicono: «ma noi si è comprata, con l’aria e tutto». Comprata da chi? chi è che
ha venduto i miei sei - o seicento - metri quadrati di terra, con l’alba di
aprile, l’ossigeno, le farfalle e tutto? Chi ha venduto questa libertà (anche
dei miei fratelli, dei miei amici poveri), chi ha venduto i nostri sei o
seicento metri quadrati dove noi ce la saremmo costruita, anche in economia, una
stanzuccia? Ed ecco, invece, perché non siamo forti, ci prendono i nostri verdi
metri quadri, e ridono: «via, via, a voi ne toccano solo due, di metri, ecco il vostro diritto, e non è allegro fra
qualche tempo...»
E case sorgono, case sempre più
belle, a fitti altissimi, dove noi non potremo mai entrare. MAI. MAI. MAI.
E da dove, mi domandavo ancora, quelli
che entrano in possesso di queste case prendono i soldi per pagare questi fitti
altissimi?
Anche qui mistero, cioè
Kierkegaard, cioè angoscia.
Una cosa, però, non era mistero,
anzi era chiarissima: che il territorio italiano non era di tutti gli italiani, ma praticamente, di
un solo gruppetto, che l’aveva ricevuto in eredità dal nonno; e così, milioni
di persone vivevano in casa d'altri, dormivano nel letto d'altri, mangiavano
alla tavola d'altri, e se prendevano il fresco era sotto l’albero di un altro.
E la prova di questa situazione terribile era in questo: che si doveva sempre, sempre, eternamente, assolutamente,
senza scampo, pagare una tassa a quelli che avevano la disponibilità gratuita
della nostra terra, e questa tassa andava diventando sempre più alta e
inaccessibile alla povera gente; e si assisteva allo strazio di persone
scacciate dal loro piccolo spazio, perché non avevano pagato la tassa al ricco che
se n’era impadronito da tempo - e vi aveva costruito sopra, per farne mercato,
dei muri. E poiché le strade e le piazze neppure esse erano abitabili, si
prospettava la necessità, per il povero, il senza casa, di gettarsi nel mare, o
arrampicarsi su qualche vetta inaccessibile, dove erano in vista cartelli col
nome dei proprietari del suolo. E qui, la mia immaginazione non si fermava: e
se lo avessero raggiunto anche là? Espatriare non aveva senso, perché negli
altri paesi era uguale. Teoricamente solo un lancio negli spazi celesti, con l’obbligo
di non fermarsi MAI, in nessun luogo, avrebbe potuto risolvere il dramma del
povero. O, più modestamente. (forse gli Spazi sono già occupati) la morte.
La musica da ballo, frattanto, si
era chetata, e dal fatto che era tutto spento, tutto dormiva sulla collina, mi
parve di capire che era vicina l’alba. E a questo punto il mio terrore - perché
era un vero e proprio terrore - divenne, forse a causa di tanti ragionamenti, e
della sensazione del tempo che scorre senza alcun mutamento, e della debolezza
delle creature "ospiti", di cui mi pareva avvertire il fioco respiro
proveniente da tutte le stanze di affitto della terra - divenne, questo
terrore, così intenso, che mi alzai e girai un po' per la casa, perdutamente.
Mi addormentai che era giorno, e
sognai non so che deserti, e che nuovi soli, e poi uno scampanare che annunziava
la nascita di una nuova umanità. Apro gli occhi. mi metto a sedere sulla
brandina. (il cuore era in gola); ahimè! È il campanello di casa, suonava insistentemente.
Alla porta c'era un buon vecchio
magro, un po’ curvo, col berrettino dell’Azienda Elettrica, e una borsa nera
sotto il braccio. Veniva, per conto dell’Azienda a sigillare il contatore della
luce.
«Disturbo?»
«Faccia pure. Anzi che ora è?»
«Le nove passate».
A quell'ora, la signora Emma già
filava in macchina, con famiglia e bagaglio, verso Napoli, e perciò non c’era
nulla da fare. Smontai la brandina, la sistemai sulla valigia, e scambiate
altre due chiacchiere con l’operaio, me ne andai.
Passai tutto il giorno andando su
e giù per la capitale, e stranamente non mi sentivo affatto ansiosa, mi
domandavo soltanto a chi avrei potuto telefonare. Non per qualcosa, ma così,
per sedermi un po’ all'ombra di una parete e vedere un sorriso. Parlare non
avrei potuto né voluto, perché la storia delle mie vacanze mi sembrava di quelle
da non dirsi, piuttosto torbida, e il punto centrale, il più oscuro e
inconfessabile, era che avevo voluto andare in vacanza senza soldi, e dove poi?
In un quartiere di lusso della capitale. Mah!
Alla sala dei telefoni, che adesso
non è più a San Silvestro ma in una traversa del Tritone, comprai una ventina
di gettoni, e lì, valigia ai piedi, cominciai a consultare il mio taccuino degli
indirizzi, e ogni tanto facevo un numero, ma come per divertimento, sapendo già
cosa avrebbero risposto. Difatti, chi partiva, chi era dalla sarta, chi
dall'amica, l’amica era indisposta, poi si sapeva che era dal parrucchiere. A
uno di questi numeri rispose una voce gioiosa, era quella di una bambinuccia che
non mi conosceva, e corse a chiamare il padre che era tra i miei amici d’infanzia,
ma ora, a Roma, è persona importante. Quello venne, e con voce fiacca, sentito
il mio nome, disse che era in partenza, e telefonassi a un altro amico, di cui
mi diede il numero. «E come va la vita?» io chiesi, e la risposta fu un fruscio
incomprensibile, imbarazzato, segno che la sua mente non mi riconosceva più.
Finalmente venne al telefono un
giovane di Torino, medico, che ogni tanto mi scrive delle lettere gentili, e fu
(o mi parve) molto contento, e lì per lì stabilimmo di trovarci la sera alle otto
a San Silvestro. Sarebbe venuto con una nostra amica e avremmo cenato insieme a
Trastevere.
Respirai, e quella pesante
giornata mi parve divenisse più leggera e piacevole. Del resto veniva di nuovo
la sera. Non ero a Monte Mario, ma in pieno centro, non dovevo occupare nessuna
casa, solo, all'una, riprendere il treno per il Po. Me ne andai così, per passare
il tempo, in un emporio, dove l'anno avanti avevo comprato un paio di scarpe di
paglia per ottocento lire, ma adesso si erano consumate.
L’emporio era in un quartiere
popolare verso S. Giovanni, e qui trovai una folla tutta diversa da quella di Monte
Mario, ch’è la folla di signorini. C’erano omoni e donnoni, tutte con le facce
accese dal gran caldo, coi vestiti sudati, con gambe piene di vene, di peli, di
macchie rosse, di brufoli. E c’era odore di sudore, e luminarie, e non so che angoscia,
tanto che molto mi meravigliai ricordando quanto si dice della pacatezza del popolo
di Roma, della sua salute. A un certo punto. per non so che sciocchezza, lì sul
marciapiede fuori del magazzino. successe il finimondo. Sembra che uno
passando, avesse urtato un altro, e l’altro voleva ammazzarlo, e ci fu un fuggi
fuggi, tanto che qualcuno andò a telefonare alla Polizia. E di lì a poco c’erano
sul posto due giovanotti annoiati, che ripetevano: «calma... circolare...
niente è».
Ritornai in centro senza aver
comprato le scarpe, ed eccomi in Piazza di Spagna, magica di mezze luci, di fiori,
di tramonto, con la sua scalinata piena di giovani estatici, e di colpo mi
ricordo di un'altra sera d’estate, otto, nove anni fa, e di una ragazzina
abruzzese, mia amica, con la quale andavo passeggiando. Questa ragazzina non
aveva un lavoro (e poi non avrebbe potuto lavorare, perché non aveva quasi fiato),
la sua voce era appena un filo, roca e dolce, e i suoi meravigliosi occhietti
neri brillavano come quelli di un gattino nascosto dietro il carbone. Viveva in
uno di questi grandi studi un po’ tristi, in fondo a un giardino. Suo amico era
un pittore magrissimo e serio, per quanto, con un po’ di soldi in tasca,
diventava subito un altro. Ma non vendeva, e per questo era sempre via;
ultimamente aveva attraversato, con la sua valigetta, il Po, e si diceva che, un
giorno o l’altro, avrebbe proseguito per le Alpi. La ragazza non aveva potuto
seguirlo, era rimasta in fondo al giardino. Andava a comprare il latte, questo
faceva, e subito rientrava nel giardino. I ragazzi, quando la vedevano, le
lanciavano sassi, a causa dei suoi calzoni di velluto verde e delle sue
camicette ricamate (che allora non erano in voga), ma soprattutto, credo, a
causa della sua piccolezza, timidezza, inconsistenza. Si avvertiva già
d’allora, nell’aria, la prossima estate, il decennio 50-60, il furore di grandi
corpi, grandi ozi, grandi clamori. quella ragazzina impossibile, un po’ triste,
già fuori tempo prima della guerra, dopo la guerra era veramente assurda. La
poverina lo sentiva, e quando le lettere d’oltre Po cominciavano a diradare, o
a mostrare freddezza e noia, nemmeno il latte andò a prendere più.
Pensava, pensava, ecco cosa faceva, e il
risultalo era uno straziante sorriso.
Ma non avrei mai pensalo di non
vederla più, improvvisamente. Sì. partì o morì, qualcosa accadde.
Un pomeriggio come questo, erano
le quattro, lasciai via Capo le Case, dove avevo una camera, attraversai la
piazza e raggiunsi, nel vicolo, il giardino.
Qui, una sorpresa mi attendeva.
La porta dello studio era spalancata, e sulla soglia stavano due giovani alti,
vestiti di grigio, dal viso che mi parve tra triste e impassibile. In mezzo
allo studio, seduto su una sedia, un vecchio signore che mai prima d’allora avevo
visto, tremava penosamente, con le guance infuocate, un che di convulso.
Veniva fin nel giardino, sul fogliame
carnoso, un odore acre e dolciastro, che d’allora associo sempre ai giardini
d’estate, e la tenda dell’alcova era chiusa. Pensai di aver sbagliato giardino,
e in una confusione indescrivibile tornai indietro, in via Capo le Case, andai
a rinchiudermi nella mia stanza, ma non potevo smettere di piangere. Poi
tornai, con un mio amico, e lo pregai di andare avanti e domandare alle donne che
sostavano davanti al cancello, se avevano visto passare la ragazzina, e quando
sarebbe rientrata. Me ne rimasi appoggiata al muro di fronte, un minuto eterno,
fantasticando di vederla apparire da qualche parte, con i suoi occhi di gattino.
Invece, vidi il giovane confabulare con le donne, e poi fare un gesto, voltandosi
verso di me, e abbozzando un sorriso, che aveva qualcosa di terribile, mentre
mi si avvicinava rapidamente. E dissi: «dov’è? dov’è?», e lui mi prese per un
braccio, e ripeteva, abbassando con un fare d'automa la testa lunga e rasa:
«via di qui, andiamo, presto, andiamo via di qui» con una voce che si sforzava di
essere calma, e un sorriso che stringeva il cuore.
Passammo la notte in una casa, in
un’altra, oppure in strada, piangendo e tremando, perché amavamo molto quella
ragazzina, e dicendo che saremmo partiti anche noi, e non avremmo messo più
piede in Piazza di Spagna. Non volevamo più vederla quella scalinata.
E invece (almeno io), eccomi ancora
qui. Non molto volentieri, per dire la verità, né a Piazza di Spagna né a Roma,
però ci venivo. Perché ecco, già da qualche tempo il ricordo della ragazzina se
n’era andato, era salito (o sceso) alle nuvole, e io potevo passeggiare in questa
piazza, o andare a vedere le nuove bellezze, i nuovi ideali, le nuove
celebrità. Oppure, nulla: aspettare la sera, la luna che imbianca come una
polverina da sonno le lunghe scale, il fresco della notte alta, in cui Roma
tace, e si spegne l'ardore delle sue strade, il respiro incosciente della
borghesia, e il sudore denso della plebe diventa freddo.
Andavo su e giù, e il dottore
torinese non venne. Le otto, le otto e un quarto, le otto e trenta. le nove
meno un quarto, le nove; cento, duecento, mille macchine, ma la sua non si
fermò.
«Bene, andrò a mangiare da
qualche parte, dissi tra me. «Su coraggio, domani alle sette passeremo il Po»,
e in quel punto mi venne in mente che potevo telefonare ad Antonio T., che ha
sposato da qualche tempo una ragazzina di Los Angeles.
Antonio T., una volta, proprio in questa piazza, mi fece
vergognare, perché - per una sciocchezza
che avevo detto - si mise a gridare: «dov'è il mio paese? risponda. Dov'è il
mio paese?» con una faccia che improvvisamente era fatta di due buche di
dolore, sotto gli occhi, e due occhi chiari, dilatati, di bambino in un letto
di ospedale.
«Pronto?» chiesi. È lei.
Antonio?»
Mi rispose, dall'altra parte, una
voce subito ansiosa, eccitata, con un che di sentimentalmente polemico. Mi
aveva riconosciuta.
« Serve un letto?» gridò.
«Eh sì… piuttosto stanca... se
c'è!» risposi.
Non era del tutto vero, ma mi
attraeva l'idea di letto pronto per me, in una parte qualsiasi della città,
completamente gratuito: un simbolo di famiglia.
«Lo dico subito a Conny. Aspetti».
Conny era una ragazza di Los
Angeles. Non erano passati dieci secondi, che Antonio tornò e disse: «Conny e
io l’aspettiamo. Venga subito».
Queste parole mi gettarono in una
felicità indescrivibile. Naturalmente, non era per il fatto in sé, che potevo
riposare, ma per quello che significava. Qualcuno, nella capitale, mi aspettava,
alcune voci e occhi erano disponibili per me, e due di questi occhi e una di
queste voci erano di Conny Brown, la moglie di Antonio.
Io volevo bene ad Antonio,
s’intende, ma a Conny Brown pensavo da tempo, perché me l'avevano descritta
come una figlia della nuova America. Un mio amico pugliese era venuto da Roma,
in primavera e mi aveva detto che stava nascendo una nuova America, del tutto differente
da quella conosciuta. Stavamo in un caffè di Milano, mi ricordo, in fondo a via
Durini, faceva molto caldo, e c’era, di fronte a noi, sul marciapiede, una
pianta enorme, frondosa, stranamente appassita, però solo apparentemente,
perché in alto, invece, dall'intrico delle foglie pesanti, spuntava un lungo
tralcio esile, trasparente - la tenerezza fatta vegetazione - che si buttava
verso la luce. E guardando quel tralcio, il mio amico disse che la prima età
dell’America, età di salute e di strapotenza, era finita, sebbene non si
vedesse, ma intanto aveva dato vita a una generazione che ora metteva le prime
foglie, una generazione dolcissima, assolutamente giovane, che avrebbe
illuminato il mondo. Io sorridevo, ascoltando l’infiammato discordo del ragazzo
pugliese, perché la parola “illuminare il mondo” non mi piaceva. Ma certo
sarebbe stato bene se qualcuno avesse illuminato il mondo, e se questo
qualcuno, poi, fosse venuto dall’Ovest, io sarei impazzita di gioia. Perché l’Ovest,
non volevo dirlo, era il mio amore, e da qualche tempo non conoscevo pensiero
più pungente della sua decadenza, del suo morire, in ottima salute morire.
Dall'Ovest nasceva per me l'unico sole possibile, e un altro sole non avrei voluto vederlo. Avevo tentato di fissarlo, ma era troppo triste. Come adolescenti traditi dalla loro famiglia si gettano nella strada, a compagnie nuove e ardite, ma sempre, la sera, tornando a casa, spiano il volto amato del padre, per vedere se vi sia traccia dell'antica bontà e bellezza che li affascinava, così io e molti altri! - di quando in quando tornavamo indietro, ci mettevamo a guardare il vecchio volto dell’Ovest! Oh, vederlo illuminarsi, fiorire in un sorriso umano, sensibile, pari a quello degli angeli del Trecento! Ma no! Era un volto apatico, duro, rovinato dal benessere, dallo stesso vuoto benessere che ci promettevano da ogni parte. E guardarlo faceva male. E ora, improvvisamente, qualcuno veniva a dirci che qualcosa era sempre vivo, a Ovest, che di là sarebbe tornata la nostra pace. Dovessimo crederci? Mah!
Dall'Ovest nasceva per me l'unico sole possibile, e un altro sole non avrei voluto vederlo. Avevo tentato di fissarlo, ma era troppo triste. Come adolescenti traditi dalla loro famiglia si gettano nella strada, a compagnie nuove e ardite, ma sempre, la sera, tornando a casa, spiano il volto amato del padre, per vedere se vi sia traccia dell'antica bontà e bellezza che li affascinava, così io e molti altri! - di quando in quando tornavamo indietro, ci mettevamo a guardare il vecchio volto dell’Ovest! Oh, vederlo illuminarsi, fiorire in un sorriso umano, sensibile, pari a quello degli angeli del Trecento! Ma no! Era un volto apatico, duro, rovinato dal benessere, dallo stesso vuoto benessere che ci promettevano da ogni parte. E guardarlo faceva male. E ora, improvvisamente, qualcuno veniva a dirci che qualcosa era sempre vivo, a Ovest, che di là sarebbe tornata la nostra pace. Dovessimo crederci? Mah!
Però, era per questo che io
desideravo vedere Conny Brown!
Ma persi del tempo, prima di
andare a casa di Conny Brown e di Antonio, prima di prendere un tassì. Arrivai
a Piazza del Popolo, e da una certa distanza osservai i suoi letterari caffè,
ricordai nomi e vidi volti noti. E mi pareva che fossero di gente straziata
senza saperlo, da non so che, l’estate, e il tempo, e la città governata da non
si sa chi, o che, e le bandiere e le voci straniere, assiepate nel porto delle
sue nuvole, della sua afa. Mi venne in mente, perché ero proprio pazza, Eugenio
Montale: Tu non ricordi la casa dei doganieri, e da Piazza del Popolo ero corsa
già ai platani di Via Veneto, e guardavo meravigliata i caffè, e la grande
fiera internazionale, e il brulichio indigeno dei fotografi, e vidi, come in un
sogno, l’incendio dell’anno scorso, le anziane cameriere che scendono lentissimamente,
capovolte, dalle finestre del quinto piano, e i fotografi che si precipitano a
ritrarle: e, l'indomani, le crudeli edizioni che vanno a ruba. Anche i giornali
di sinistra hanno acquistato le belle foto, e vendono vertiginosamente. Perché,
mi domandavo, belle? Per chi belle? Chi è là dietro! avrei voluto gridare. E: “Tu non ricordi la casa
dei doganieri”! Montale sembrava qui.
Quando arrivai alla casa di
Antonio, la testa mi girava. L’ascensore volò fino all’ottavo piano, e qui mi
depose davanti alla loro porta. E, prima di bussare, io mi fermai un po’
davanti alla porta, e dicevo nella mia mente:
«Conny Brown. Perché proprio Conny Brown?
Che vuol dire Conny Brown?».
La porta si aperse, credo
l’avesse aperta Antonio e vidi subito la ragazza di Los Angeles, Conny Brown,
dietro di lui. E l'impressione fu che non una porta si fosse aperta, ma un
cancello, e quella non era una anticamera ma un giardino, e fu anche chiaro che
la ragazza di Los Angeles era semplicemente un uccello.
Se ne stava lì, come un uccelletto
su un ramo pieno di sole, con gli occhietti pieni di sole, su un ramo che
dondola. Così era Conny Brown.
Subito dopo emise un piccolo grido,
fece due brevi giri per l'anticamera e volò verso di me come per abbracciarmi,
infine mi abbracciò. Ma se dovessi dire che era una vera persona, ad
abbracciarmi, sbaglierei. No, era semplicemente un po' di sole, una luce.
Antonio era molto commosso, e mi
accompagnò a vedere la loro casetta, mentre la luce Conny Brown, saltellando,
spariva. C'erano due stanze e uno stanzino, più i servizi. Era una delle solite
case dì Roma, ma molto in alto, altissima, e quasi priva di mobili, il che le
conferiva un aspetto di casa d'infanzia. La voce di Antonio era un po' afona,
dolorosa, quando mi raccontò gli ultimi tempi della sua vita, prima di
incontrare Conny. Avvertiva un senso di grande confusione, forse a causa
dell’imminente estate, e si trovava continuamente a pensare alla sua famiglia,
che non esisteva più, nel senso che il padre amatissimo era morto, e la madre
ugualmente cara lavorava in una città lontana. Sempre, in questi giorni, gli
scoppiava nella testa il grido con cui, una sera, mi aveva quasi aggredita, e
fatta vergognare: «dov'è il mio paese?» e vedeva che non c'era risposta. A
questo punto aveva incontrato Conny Brown.
«E Connv è forse il nostro paese?»
io dissi con un sorriso.
«No, non è certo il nostro paese,
ma è la speranza».
«Sì. attraverso un mutamento del
tempo. La guardi un po’».
L’uccello Conny Brown rientrava
in quel momento nella stanza, portando una bracciata di lenzuola e federe per
il letto dove io dovevo dormire. La guardai,
e vidi che era un poco più alta di quanto mi era apparsa sul primo momento, e
in fondo alla sua gioia c’era come un velo, una serietà quasi malinconica, non
saprei dire. Sempre, al posto del suo viso, c'era una foglia a forma di cuore,
e piena di luce; ma gli occhi, in quella luce, erano bassi, e la bocca delicata,
non grande, sorrideva invece di ridere: ed era proprio come quelle giornate di
primavera, che per troppa dolcezza il sole si nasconde, o gira pallidamente tra
gli alberi fioriti. Indossava un abituccio di ciglio antico, a righe
fittissime, rosse e blu, con una gonna abbastanza lunga, e una delle sue calze
era sfilata. Ai piedi, scarpe senza tacco, gialle. Ed erano dello stesso giallo
dei suoi capelli corti, di bambino. Questa era Conny Brown.
Andò vicino ad Antonio, e si mise
a parlargli sottovoce, in inglese - perché non sapeva parlare altro - diventando
in viso di un bel rosso. Antonio si mise a ridere.
«Abbiamo lenzuola scompagnate, e una
federa un po’ lacera», mi spiegò. «Conny è molto confusa. Perché non abbiamo
tante cose», disse con una strana eccitazione dalla quale non era esclusa una
specie di beatitudine. «E speriamo di averne sempre meno», soggiunse con
allegria.
Bene, io non capivo molto. Trascorremmo
una strana sera, a un tavolino che Conny aveva apparecchiato nella mia stanza,
e che presentava soprattutto insalata e acqua mista a vino. Si vedeva che essi
si erano sposati in fretta, senza molti mezzi, affascinati soprattutto da
qualcosa che ciascuno aveva trovato nell'altro. Ora, malgrado il dolore dei
suoi occhi non fosse del tutto sparito, il viso bianco di Antonio era più
calmo, mentre del viso di Conny non si poteva dir nulla: altro che era pieno di
quella gioia velata, e di una timida luce. Agli angoli della bocca, piccoli
pensieri si dondolavano, e quella luce li accompagnava: ma gli occhi si
giravano intorno miti, assorti.
E, improvvisamente, io riconobbi
in quegli occhi altri occhi che avevo visto un po’ dovunque, per la penisola,
da quando la guerra era terminata, e perfino quella mattina, in auto, fuggendo
da Monte Mario; e tutti avevano questa luce d'innocenza velata, però indomabile;
non altera, ma che non si poteva piegare né corrompere; questa dolcezza di
colomba e questo ardore di solleone; il grido di un bambino e la calma eterna
dei padri; ed evocavano non so che purezza incendiata di orizzonti, che epopea
di bandiere, che solitario rompersi di mare su deserti di conchiglie, come una
voce d’amore che toccava tutti, e poi si inabissava nel profondo del cuore, per
riemergere nuovamente, all'alba, tutta sonora e straordinaria nella luce; così
erano infine questi occhi stranieri, provenienti dai vecchio Ovest. E capii che
il vecchio Ovest non poteva invecchiare, né morire, né corrompersi, come non si
corrompeva la luce di questi occhi. E vidi che Ovest, e mare salato, e questi occhi
di colomba erano la medesima cosa. E, insomma, morivo di gioia.
Poco alla volta, in quella
stanza, non si parlò più. Pensavamo oceano,
pensavamo mediterraneo, pensavamo
cose prossime, oscure, ma senza che la gioia ne fosse scalfita. E tutto questo,
io credo. era favorito da una forza immensa, che andava avviluppando -
d’improvviso - la casa, e metteva tali stridi da sembrare che centomila
gabbiani volassero intorno al tetto, come a uno scoglio, portati da qualche ondata
gigantesca. Eppure, Ostia era lontana, e tra Roma e Ostia c’era un deserto di
quaranta chilometri.
Dal balcone aperto, si vedevano
ombre dì una grandezza impressionante, animate da un rosso riverbero di fuoco,
venire avanti, e lanciavano lamenti e minacce da far accapponare la pelle. Navi
si erano accostate ad Ostia, in tutto questo tempo, e ora già bombardavano. Così
pensavamo, ma tranquillamente.
In anticamera, la porta di casa
scattò, e fu proprio come se qualcuno l'avesse forzata, profittando del nostro stordimento,
e ora si precipitasse in quelle stanze cercandoci.
Conny Brown, con un piccolo grido, si alzò; ma Antonio la rassicurò dicendo:
«È solo il vento, Conny».
«Sì, davvero, che vento!» disse
Conny Brown quasi con voce non sua - intimidita con un sorriso. Ma non si
mosse: rimaneva in piedi, come in attesa di un secondo urto. E non credo che
rivedrò mai un sorriso più attento, vagamente triste, bello. Come se ci fosse
consapevolezza di tutto, e di quello che accadrà. E una dedizione, e una
speranza, più grandi di quello che era accaduto e accadrà.
Che notte agitata, e, l’indomani,
che tempo orribile.
Passai la notte chiamando
America! America! e l’indomani, dal balcone lasciato aperto, entrava polvere e
vento e nuvole, non pioggia, ma polvere e vento d'Africa, e lontano, sotto il peso
sinistro delle nuvole, si stendeva una Roma rossa e nera, col crudele biancore
del monumento al Militare Ignoto. Che funebre spettacolo; e che desiderio
d'Italia, di verità, di mattino, di un buon tempo di pace e di leggi, di spiriti
gentili, di amicizia, di studi, di lavoro, di una mite gloria! Ma la polvere
entrava dappertutto, e pareva che non vi fosse alcuna speranza di una buona
pioggia - in quelle nuvole, in cielo, per la terra arsa.
In fretta, in silenzio, per non
risvegliare gli sposi, mi rivestii e corsi fuori, lasciando sul tavolo un
biglietto. Due ore dopo ero in treno.
E qui non ci sarebbe più nulla da
dire, senonché mi accorsi quella mattina di come l’Italia, dal Lazio
all'Emilia, e certo più su e più giù, sia verde e sola. Non vi sono che boschi,
per centinaia di chilometri, un manto fitto che tutta la ricopre, come i poveri
coprono la fronte con la mano, quando sono molto stanchi. E sotto quel manto
sta un’Italia povera e sola.
Tracce di abitazioni, rare; salvo
i pochi centri toccati dal treno, solo casupole e ingenui castelli intorno ai
quali volano lenti uccelli neri. L’Italia, per tutto il suo corpo, che si alza
o abbassa nei monti è verde e sola, selvaggia e sola, povera e sola. Gli occhi
non finiscono di contemplarla, e si domandano rattristati dove sono i suoi figli,
per teneramente proteggerla e custodirla. Si vedono, certo, bei terreni
coltivati, bei castagneti, e uliveti, e vigne, e torrenti che scendono da rocce
lucenti per perdersi in una molle verzura; e laghi che si aprono come occhi, e
fiumi che si stendono come braccia: ma gli uomini non si vedono, gli italiani
non ci sono. Ogni tanto si tocca una città povera e sola anche Firenze povera e
sola; ma gli umbri, i marchigiani, i toscani, per fare qualche nome, non ci
sono. Stanno nelle due capitali, la vecchia e la nuova, intenti ad arricchirsi
rapidamente, a mettere nel proprio granaio più grano che possono. Pensano
sempre al diluvio.
Ma il diluvio, e la sua minaccia,
per ora era passato. Veniva una pioggia fresca e bella, come un pianto
desiderato. veniva da Orte a Bologna, e tutto era più scuro e più chiaro, più
aereo e preciso, più fulgido e tenero. Poi tuonò un poco, poi spiovve, poi
piovve di nuovo, ma piano, come lagrimette di una vedova, e qui, tra queste
lagrimette si alzò come un sogno un grande arco di luce.
E si vide, in questo arco di tre
colori. un bel poggio, con su una casetta e due alberi, e dietro, una nuvola
color albicocca, somigliante a una bella nave. E chi mai ci porterà quella nave,
mi misi a pensare; quali, fra dieci, vent'anni, saranno i nuovi signori d’Italia?
E mi parve, su quella nave,
vedere affacciati due angeli del Trecento, o forse addirittura biblici, ma non
si capiva se si accostavano o ci abbandonavano per sempre: il viso lo avevano
un po’ reclinato, un po’ pallido, e dagli occhi bassi partiva non so che parola
tenera e triste.
E poi, poco a poco, l'arcobaleno
si sciolse in miriadi di gocce, e il treno rallentò su un immenso ponte di ferro,
ed ecco, al di là del ponte, due rive, e barche tranquille, e una pianura
avvolta in una lieve foschia.
Qui, nella Val Padana, sembrava
già autunno; qui né primavera né estate; qui ferro, e il vuoto della mente; qui
notte, nebbia, soliloqui, pane.