La diligenza della capitale
La prima sensazione che si prova arrivando a Roma dal Nord con un
treno della mattina è di una
straordinaria euforia. Sul primo momento, questa città non sembra neppure vera.
Lo spazio, la luce in cui sono immerse le piazze, le strade, i gialli palazzi
umbertini; le prime deliziose rovine, la frescura delle fontane, pini
improvvisi che si aprono nel cielo di cobalto, preannunciano una tale libertà
fantastica della natura, in cui giacciono storia e costume, da darvi il capogiro.
E anche, immediatamente, il tipo umano non è più quello duro e secco e dolce, con sguardi chiari, tipo Cezanne,
che avete lasciato sul Po, ma pura Turchia. Mentre nel Nord le donne sono un
po’ uomini, e il tipo virile è quello che prevale, qui gli uomini sono un po’
donne, con le caratteristiche che un tempo
si attribuivano alle donne:
curve, fianchi, peso, labbra tumide, uno sguardo supino e un po' fosco; in più,
una disattenzione perenne, una incapacità, direi animale, d’intendere quello
che passa oltre la linea del corpo. Straordinaria è la mollezza della gioventù, più alta e snodata dell'ultima
generazione, e incredibilmente ricercata nel vestire; certe maglie rosse e
calzoni attillati per i giovani, sandali d'oro, o incrostati di pietre azzurre e
verdi, anche per le bambine; pettinature elaboratissime per tutti. La capigliatura è nera, lucida,
gonfia, portata come una tiara, un diadema.
L’altra generazione,
quella dei nonni più che dei padri, incontrata nelle botteghe profonde, nei
corridoi dei ministeri, alla guida dei mezzi di trasporto, appare, al
contrario, sommersa in una polvere di stanchezza, di fatica, e di una disperazione
molto più dichiarata che nei giovani, nei quali l'arroganza e una tranquillità
animale hanno quasi del tutto incorporato la paura. La paura, come senso
recondito di una funzione mancata, di una energia bloccata sul nascere, e
dispersa nel costume, è negli occhi dei vecchi, degli anziani, e ha momenti di
una strana sincerità. Quasi tutti gli uomini di piazza, se il caldo non è forte,
se gli esprimete la vostra simpatia, sono capaci di dirvi in un sospiro la
propria storia, ch’è quella di una comprensione. Hanno compreso che la città,
come una macchina furibonda, ha sbandato, e vola ormai fuori dalla storia; che
lo splendore della città non è sano, non è
dovuto ad una crescita organica: è invece il verde splendore di un disfarsi
organico.
Sono stata a Roma più
volte, e sempre il più grande spettacolo, quello più pregno di domande, è stato la sua folla, l’onda di carne
che riempie le sue strade, e fa pensare che le statistiche sbaglino, che questa
città porti un carico di almeno cinque milioni d'individui. Per le vie del
centro incontrate negri, indiani, file
di preti rossi dai volti germanici, gruppi di preti neri, preti in motoretta, alti
prelati in macchine sontuose. Il carattere sacro della città è visibile
ovunque, in ogni punto della sua pelle, come un tatuaggio: l'urlo delle
campane, le botteghe sovraccariche d'immagini dorate e di chiese in miniatura per
il turista; i poveri, i monchi, le finte madri, l'infanzia autentica, sottratta
alla casa, e trasformata in strumento di accattonaggio - che stazionano sui
marciapiedi, nei sottopassaggi; le code di turisti davanti alle chiese e ai musei,
nelle piazze sublimi, sempre un po' sciatte, se non decorate con dei rifiuti,
ve lo ricordano continuamente. E su ogni volto. come una luce ch'è possibile
solo in certi lunghi stregati, quell'aria d'insensibilità enorme, da
lebbrosario, ch'è la caratteristica più sottile della città; una insensibilità
da cui non è escluso né il ricordo né la compassione né il fremito, ma che si
perde e impietra, per così dire, nell'estasi. Si capisce che qui, più che in
altri luoghi del Sud, un uomo possa passare crocifisso per una strada del
centro, senza svegliare più riflessi di quanti ne susciti il volo di un
uccello, l’ombra di un cespuglio agitato dal vento. Insensibilità, estasi: insensibilità
in una perenne estasi sensuale, ecco lo spirito di Roma, attivato da una natura
ancora ferina, incoraggiato da un credo non purificato dalla Riforma. Così che
qui, come in nessun altro luogo del mondo. è possibile incontrarsi con la morte
del cristianesimo, decaduto da dottrina della umiltà e solidarietà, a costume
di sfarzo, a indifferenza grandissima per tutto ciò che già non rientri, e sia
approvato, dalle leggi e dal costume - o malcostume - civile. Qui, Cristo è così morto, così distrutto, così introvabile,
e nello stesso tempo l’imposizione del falso Dio è tale da far venire in mente
quel mirabile racconto di Melville, il "Benito Cereno", dove sulla nave all'ancora nella rada tutto
sembrava perfettamente in ordine, ma la nave non correva più: l’intero equipaggio
giaceva assassinato nella stiva, o ornava, sotto un sudario. la polena.
La borghesia di Roma non
è buona né cattiva, né intelligente né sciocca, né simpatica né antipatica:
semplicemente, non è borghesia, ma un grumo di sangue benestante, nel quale si è inserita, allargandolo, mezza
Italia, tutto il Sud depresso, incupito da secoli di solitudine fisica, mentale,
da uno stato di nulla sociale, di selvaggia schiavitù economica: questo Sud,
dopo la guerra, è salito qui, e ancora sale, impadronendosi di tutti i posti,
le cariche e la potenza possibile. Ha portato intelligenza, ma questa
intelligenza si è presto
rivolta all'utile privato (né
si poteva aspettare di più, mancando quasi totalmente, nel Sud, il concetto di pubblica
utilità che fu sempre strozzato da questo o da quel diritto sacro di singolo), così che la città, in sintesi, è oggi
una gigantesca cucina, dove si preparano menù privati, si distribuisce questo o
quel pezzo di suolo patrio, si consumano cariche e carriere. Tutti possono
salire, se hanno forza, su questa diligenza, e questa diligenza va e va, nelle
tenebre del Mezzogiorno, come la diligenza di Collodi correva piena di canti
verso il Paese dei Balocchi. Immagine, tuttavia, non adeguata, in quanto quei
giovani viaggiatori erano realmente innocenti e spensierati, mentre nella
diligenza della capitale, se qualcosa manca, è proprio l’innocenza e la
spensieratezza.
Popolo tetro. in fondo, quello
che cresce qui, di giorno in giorno, dove tutto esplode e decade rapidamente,
per una specie di maledizione. dove re e regine da operetta passeggiano in un
mondo affannoso di comparse; dove popolo
in definitiva, non c'è: non ha cultura, quindi reale potere; è la plebe
disperata delle borgate, o la folla
impiegatizia dei ministeri e delle salumerie; non ha ideali se non mangiare,
riprodursi, abbigliarsi, occupare case senza storia, e senza più storia dormire.