Anna Maria Ortese: L'uomo della costa

Da "Estivi terrori", libro edito da Pellicanolibri nel 1987, questo è il terzo dei racconti


 L’uomo della costa

 Alcuni amici mi presentarono a J. B. che sembrava cercasse collaboratori per un documentario. La sua grande statura, il viso cupo, gli abiti a lutto, una estrema mobilità e inquietudine fisica, aggiunte al silenzio e a un allegro sorriso, ne facevano subito un personaggio che spacca il quotidiano in due, rovescia i giorni, e assaggia pietanze impossibili. Dopo tre o quattro mesi dalla nostra presentazione, esattamente nel giorno e l'ora, direi il minuto, in cui aveva promesso di chiamarmi, il telefono della mia casa squillò, e riascoltai la voce indiavolata e gentilissima precisarmi, in un italiano magicamente più chiaro, completo, ma con un confuso sottofondo straniero, il nome di una strada e un caffè di Trastevere. Dieci minuti dopo ero seduta a un tavolino di ferro, tra due porte a vetri, e la luce al neon cercava di definire (impresa disperata) i contorni di quel viso energico e buio, come la negativa di una faccia bellissima, scintillante di sorriso, di grazia, di audacia, mentre il nucleo era tenebre.
Vidi subito che non aveva un soldo, ma in cambio una superbia sfrontata. Ordinò due cappuccini e delle paste, e divorò la sua roba, con la furia di un leone. L‘importante, mi disse subito, era rientrare in se stessi, e ricostruire poco alla volta la coscienza distrutta. Su quella barca sì poteva affrontare il vuoto del nostro tempo, la straordinaria Non Memoria del mondo attuale, la sua anima di Niente (il Niente era già al governo, avvertì). Naturalmente, occorreva molto coraggio per credere in quello che non era più visibile, ch'era stato universalmente dimenticato, che sembrava del tutto scomparso: ma ne saremmo stati ricompensati. Un giorno, sarebbe riemerso dal cielo l'azzurro, l’alta trasparenza del cielo, e le onde avrebbero rumoreggiato indicando l'appressarsi della patria.
Tralascio di dire qui l'impressione che mi fecero queste parole: turbamento, disagio, ironia. Intorno a noi, il cameriere si muoveva con la diffidenza, gli acuti sguardi immobili della servitù divenuta nazione, prestigio: non era neppure disprezzo, ma una disattenta compassione, una sorveglianza inerte. Mi sentivo partecipe della silenziosa inchiesta del servo, osservavo la fame di J.B «Dove siamo arrivati!» pensavo, «Non c'è più differenza, a conti fatti, tra un servo e un intellettuale, se un particolare del genere può incantarci».
J. B. non era certo sazio, quando cappuccino e paste furono spariti. Gettava ogni tanto occhiate fiammanti al piattino vuoto, ma in breve se ne dimenticò. Mi spiegò cosa intendeva per patria. Patria era esattamente quello che era una volta, e che adesso non esisteva più; un luogo dove si è sviluppata, ed è in atto, una condizione di coscienza privata e pubblica, di ordinato progresso, di libertà intimamente condizionata alla dignità di tutti. Una patria poteva anche essere piccolissima, non più grande di un fazzoletto, e chiamarsi ugualmente patria: le sue misure non nascendo quasi per nulla dall'esterno, ma solo dall'intimo.
«Questo è finito dovunque», mi disse improvvisamente, con un sorriso che giudicai irresponsabile, tanto era slegato dall'asprezza della sua affermazione. Un sorriso dolce, tenero. «Nel suo paese e nel mio - io sono americano - è finito anche in Francia. È finito in Germania ed è impensabile nel Guatemala. A oriente e a occidente. Dovunque gli uomini hanno deciso di non resistere»,
«Resistere a che?»» chiesi stupidamente.
«Ma alla facilità, naturellement».
Scoppiò a ridere, con quel misto di serpente e di aquila, di doppiezza e sincera disperazione, di allegria, dì angoscia, d’intelligenza. Il cameriere aveva dimenticato di osservarci, guardava fuori, le luci del Ponte Garibaldi. Il proprietario, un uomo grasso e bianco, dalla camicia sudata, aveva appuntato un gomito sul banco, il mento sulla mano, e si sarebbe detto che pensasse. Veniva una musichetta, da qualche posto, un ballabile e si sentivano passi cadenzati di coppie.
«Naturellement ripeté con tutt'altro tono, smorzato, quasi un principio di smarrimento.

Mi domandavo se sognassi, ogni volta che incontravo J.B. Era ovvio, per lui, che il fascismo aveva di nuovo ricoperto il mondo, lentamente, .senza che il mondo se ne accorgesse, come una nebbia grassa. «È un fascismo diverso. naturellement, i mezzi sono diversi, ma il fine rimane il medesimo: il monopolio del mondo, la concezione del mondo umano come massa, l’irreggimentazione delle coscienze, lo svuotamento delle intelligenze, e tutto questo attraverso nient’altro che il prodotto, il mito del prodotto: dentifrici, macchine, gomma piuma, non importa - purché l'uomo non riesca più a pensare, l’individualità sia annientata, e prevalga l’uomo automatico, che un pulsante può spegnere e illuminare, che non pensa più, né è immortale, in quanto ha rinunziato a se stesso».
Cose già dette, già ripetute, eppure enunciate da J. B. spaventavano.
La sua macchina - non avevo alcun dubbio che fosse una macchina rubata - nera, immensa, lucida, attraversava Roma a qualsiasi ora della notte, come il raggio di un riflettore. Veniva da un punto della costa, dove J. B. viveva accampato con della gente, e che mi rimase sempre ignoto, e vi ritornava all'alba: ma, prima, fiume, parchi, rovine, quartieri residenziali, colline, infuocate e morte vie del centro, volavano intorno al suo muso come memorie. In quella macchina. J. B. rosicchiava a volte, non visto, come un ragazzo, croste di pane.
«Non sono un gangster», mi disse una volta, con voce dura.
«Ma potrei anche uccidere, se occorresse», proseguì gentilmente.
Devo a J, B. delle vere rivelazioni in materia di coraggio e di possibilità del coraggio a servizio della ragione. «Noi possiamo distruggere anche la nostra infanzia, se questa infanzia è ignobile, naturellement, e crearci una infanzia nuova. Non esiste limite alle applicazioni della volontà. Ma occorre coraggio. Guardarci in faccia anche se siamo morti, e non aver paura della nostra morte: solo così potremo riavere la vita».
Ero sicura continuamente che sfuggisse qualcosa o qualcuno, la legge e gli uomini, non giuravo più sulla sua nazionalità né su alcune delle sue dichiarazioni; ma una qualità non avrei mai potuto disconoscergli, una qualità quasi scomparsa dal nostro mondo: uno sterminato, irruente coraggio, e il disprezzo totale della facilità, e una irrefrenabile simpatia che portava in sé, nel suo ragionare eterno, nella sua miseria e fuga, come un lampo di pace, di gioia.
Lo ricordo adesso, a distanza di un anno. Locali, strade, colline, acque, ponti, giardini sono i medesimi; macchine, come un mare di acciaio nero e blu, scintillano dovunque, e dovunque, praticamente, J. B. potrebbe riapparire. e riprendere il discorso sulle nostre patrie perdute, sulla facilità ch'è alla base di questa perdita, ma non riappare, non c'é più J. B. Languidamente, sazia, assorta, la capitale splende nella pioggia, ciascuno fa il suo gioco, la terra dorme e odora.