ContrAppunti perVersi: Alberto Moravia




ContrAppunti perVersi è una pubblicazione Pellicanolibri, 1990
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18a parte
"Cenci e bombe"
Intervista rilasciatami da Moravia per il "Giornale di Sicilia’’ di Palermo il 17 luglio 1984

L'altra sera, nella cavea di Castiglione di Sicilia, sono stati consegnati i premi “Akesineide”, quest’anno alla quarta edizione a Raphael Alberti, per la poesia, ad Enzo Biagi per il giornalismo italiano, a Phillippe Pons per il giornalismo straniero, a Pietro Ostellino per il giornalismo italiano, a Giuseppe Di Bernardo per il giornalismo siciliano, a Fernanda Pivano per la saggistica, a Gianni Dova per l'arte, a Eugene Paul Wigner per la fisica, a Turi Ferro per il teatro e infine ad Alberto Moravia per la narrativa. 
Premio simbolico dal punto di vista strettamente economico, ma di grande prestigio se, in pochi anni, è diventato uno dei premi più noti in Italia. 
Basti pensare, oltre ai nomi citati, ai premiati delle precedenti edizioni: Dario Bellezza Carlo Bo, Alberto Lattuada, Peter Nichols, Enzo Aprea Alberto Bevilacqua, Indro Montanelli. 
In coincidenza con il Premio, a Valverde, nell'atrio interno del Santuario, dalla Compagnia Teatro “I Nipoti” è stata messa in scena Beatrice Cenci di Alberto Moravia per la regia di Enzo Siciliano. Fra gli attori Luigi Diberti,, Isabella Martelli, Giorgio Crisafi. 
Abbiamo posto a Moravia, il più noto e instancabile degli scrittori italiani, alcune domande. 

«Come vedi Beatrice Cenci nell'ambito delle tue concezioni sul teatro?»

«Beatrice Cenci è un'applicazione ispirata ad una mia concezione del teatro moderno. Secondo me il teatro moderno si divide in due grandi correnti: il teatro della chiacchera e quello della parola. Per il teatro della chiacchera intendo teatro modernissimo a partire da Cechov fino a Becket. In questo teatro i personaggi pronunciano delle parole insignificanti che però, per virtù teatrale, proiettano delle ombre simboliche. Questo è il teatro della chiacchera che piano piano porta all'esaurimento della parola. La tragedia avviene fuori dalle parole. Nel teatro della parola, come in quello di Ibsen o Pirandello, la tragedia invece avviene nelle parole, cioè in quello che si dice. Questo teatro della parola, che è poi il teatro classico, quello di Shakespeare, di Sofocle, io l'ho voluto riprendere nella Beatrice Cenci, che infatti è molto parlata. Beatrice Cenci è una tragedia, io penso che la tragedia sia la sommità dell'arte letteraria. La tragedia greca ha quella fusione misteriosa di poesia e psicologia e di rappresentazione sociale che è sempre attuale. Naturalmente la tragedia è fondata sulla famiglia, perché la famiglia ha le sue radici in qualcosa che non è sociale, pur essendo un fatto sociale. Le radici della famiglia sono infatti naturali. Questo mi ha fatto preferire la Beatrice Cenci che è una tragedia di famiglia»

«Ma c’è nella tragedia anche un altro riferimento, quello alla città di Roma»

«Io sono romano e credo di conoscere profondamente la mia città. Nella Beatrice Cenci c'è una Roma del Rinascimento molto diversa da quella che si conosce storicamente. Quella di Leone X e di Michelangelo è una Roma sordida, tetra, ignorante che poi doveva diventare più diffusa in Italia, come atmosfera nel Seicento. Francesco Cenci era un nobile degradato il quale, non avendo più soldi e non potendo dare una dote alla figlia, decide di rinchiuderla in un Castellaccio. La figlia, Beatrice appunto, privata della sua vita legittima e del suo avvenire, decide di uccidere il padre. Tutto ciò in un'atmosfera che non è possibile ricostruire oggi. Non possiamo sapere quale dramma può essere quello di un padre che non può sposare la figlia perché non può darle la dote e qual è il dramma della figlia che non può sposare. Perciò la tragedia è basata sui dati dell'esistenzialismo degli anni Trenta: infatti il padre è crudele per noia e la figlia è omicida per nostalgia dell'innocenza. Sono dati psicologici degli anni Trenta, non del Cinquecento». In effetti non ci sono scene violente, sono proprio le parole, e pensare che è stata scritta nel'58... «Veramente è stata scritta nel'53, poi è stata tirata fuori dal cassetto nel’57»
«Quando è andata in scena per la prima volta?». 

«È stata messa in scena nel '57 in Sud America con la Proclemer. In Italia con Pandolfi all’Eliseo di Roma». E questa ripresa di Enzo Siciliano? «È la ripresa fatta da un letterato molto fine che ha voluto sottolineare il carattere di contemporaneità della tragedia seppure sotto vesti storiche. Infatti la messa in scena è quella di una villa di campagna, in una di queste famiglie latifondiste del Lazio. La gente è vestita come negli anni Trenta. Ha avuto ragione di farla così perché sono venuti fuori elementi che sono già negli “indifferenti”». 

«Con Siciliano c'è già stata in precedenza un'esperienza teatrale, mi pare...». 

«Abbiamo creato insieme il “Teatro del Porcospino” intorno al'65, dopo un po' abbiamo compreso che economicamente non potevamo andare avanti». Sei dappertutto, scrivi tanto, lavori sempre. In Italia, fra i giovani, vedi ma continuità della nostra narrativa? «Io non lavoro molto, solo tre ore al giorno ed è per me un bisogno fisiologico. Per quanto riguarda il resto, la questione è molto semplice: l'Italia è un paese europeo, a partire dall'unità d'Italia la nostra letteratura è una delle tante letterature europee, non è più italiana nel senso esclusivo in cui lo era prima. La dialettica interna quindi è europea, mondiale. In questo senso la nostra letteratura ha degli autori che la rappresentano bene nell'ambito europeo il quale, fra l'altro, non sta certo attraversando un buon periodo. Ad esempio il romanzo non esiste quasi più. Quello italiano non è un vero romanzo, per lo più; in genere i nostri scrittori scrivono racconti. Il romanzo è un'altra faccenda. Romanzo vuol dire recuperare la totalità della realtà sociale. Il racconto invece ha un carattere più lirico. Un racconto poi non ha un’ideologia, un romanzo sì». 

«Moravia eurodeputato: solo per un fatto personale?»

«Penso che c'è una minaccia oggettiva di morte totale del pianeta e della specie. Questa minaccia mi poteva anche lasciare indifferente in fondo visto che ho 76 anni, ma a un certo punto si è incorporata nella mia ispirazione culturale, è diventata un fatto personale e allora mi sono messo a fare il deputato parlamentare, nella speranza di far qualcosa per il disarmo nucleare. È una cosa puramente personale, non credo di essere un uomo che protesta, ma un uomo che sente». 

«Pensi che il Parlamento europeo possa avere questa capacità di azione?»

«No. Il Parlamento europeo è un parlamento come tanti altri, però da Strasburgo all'Europa si può fare quanto è possibile per promuovere un movimento di massa. Realmente, oggi, la guerra nucleare dipende da pochissime persone, quindi le masse possono esercitare una pressione molto forte su questi governanti che hanno totalmente perso ogni rapporto col reale». 

«Il tuo quindi è un atteggiamento di speranza...»

«Penso che l'umanità è ancora per fortuna animata da istinti animali, ha delle riserve di reazione, risorse di reazione, come gli animali dinanzi a una minaccia che porteranno, secondo me, all'abolizione dell'arma nucleare. Se ciò non avviene possono accadere due cose: la permanenza della minaccia nucleare pur senza guerra produrrebbe una cultura della disperazione e di fine del mondo, oppure provvedere che si vada avanti con delle trattative sterminate nelle quali la tecnologia e la politica mescolate non facciano passare il tempo. Penso che bisogna dare il tempo alle nuove generazioni di nascere, esse o saranno suicide o ameranno la vita e si salveranno. Per concludere, la bomba nucleare non è un incidente di percorso, fa parte della nostra cultura, come ne faceva parte l'Apocalisse di San Giovanni. Resta da vedere se questa cultura va verso la fine definitiva oppure produce una dialettica per cui si salverà l'umanità».