Luce d'Eramo, prefazione a "due o forse più cose so di lei", 1995


Inizio a pubblicare qui i miei racconti scritti fra il 90 e il 95. Partendo dall'autrice che è stata non soltanto semplicemente una amica, ma una scrittrice di immenso valore culturale. Negli ultimi due anni qualcosa nella nostra cultura si è mosso e alcuni dei suoi volumi hanno rivista la luce. Non passava giorno che un biglietto o una sua telefonata mi ricordasse che il nostro impegno era quello dello scrivere, un dovere verso noi stessi, anche quando non avessimo lettori.
Le condizioni dell'editoria sono sempre più difficili e invasi da libri che molto spesso hanno la durata delle uova (fresche, non pasquali).
Quindi vedo e sento giusto l'uso della rete che dà questa enorme possibilità di poter proporre libri come questo, ormai scomparso anche dalle bancarelle.

Prefazione

   Sin da Romanzo siciliano dell’84, l’inquietante poeta Beppe Costa ha rivelato il suo singolare talento di narratore. In quell'opera lo scrivere è un’operazione a rischio. L’autore si butta nel racconto come uno imbocca una strada sconosciuta. Ogni tanto si ferma, si guarda attorno, non sa dove svoltare, pare consultarsi col passante/lettore e riprende a andare. Più che la storia d’un personaggio - per altro ben presente -, Romanzo siciliano pare quasi la storia d’un sornione tastare le parole: fino a che punto resiste il filo d’un racconto continuamente scortato di dubbi? 
   Come sia, in quest’ottica m’è venuto di ripercorrere anche gli altri romanzi di Beppe Costa, Fatto d’amore dell’87 e Il male felice del 92, dopo che ho ultimato lettura di questa sua neonata raccolta di racconti intitolata Due o forse più cose che so di lei. Certo, un altro aspetto mi ha colpita nei tre romanzi dello scrittore, e cioè che in essi la narrazione, proprio perché così “sospettosa”, è di libro in libro sempre più densamente intricata nei meandri della società d’oggi che rappresenta e in cui si muove. 
   Nei racconti Due o forse più cose che so di lei, Beppe Costa tira diritto. Lo spiare il corso dei fatti narrati gli s’è connaturato ed egli coopta i lettori nelle storie che insegue senza star lì a dubitare, a interrogarsi se fa bene o se fa male. Sin dalla prima pagina. Per esempio, nel racconto Silvie, un giorno, per la via, l’io narrante si vede passare vicino una giovane donna e dice tra sé: “...indossava un viso ovale offuscato di una rada patina d’antichità, non pensate coperto da ciprie o cose del genere (che non so neppure descrivere per colossale ignoranza nel settore e non voglio assolutamente documentarmi in altri romanzi, non v’è simile)...”.
   Altrove, non gli va nemmeno di raffigurare un’intera sequenza, scatta un flash e avanti. Tutt'al più può capitargli di disquisire (con improvviso zelo) su questioni un po’ marginali come, in Il signor Legrand, il clima d’una certa giornata di cui poi non sappiamo altro: “L’aria, se ancora oggi possiamo parlare di questo elemento astratto già abbastanza per conto suo, intorno a lui era irrespirabile, qualcuno molto più vicino di me sostiene che contenesse elettricità e il fatto può anche essere possibile, dato che in quegli anni possiamo, consultando i giornali di quella regione, constatare di quanto il tempo fosse peggiorato. Quest’ultimo elemento comunque va oltre la nostra storia, non essendo affatto meteorologi...”. 
   Quest’apparente noncuranza d’una scrittura che non ha più bisogno di cercarsi dà confidenza a chi legge. Ecco la trappola. Ci troviamo calati in vicende stravolte e surreali in un’atmosfera normale, di esperienze quotidiane. Il contrasto tra il tono dimesso, “onesto” del narrare e lo svolgimento inatteso degli avvenimenti è coinvolgente. 
  C’è anche una struttura complessiva dei racconti nel loro insieme: i primi nove, brevi, precipitano tra cunette e balze verso l’epilogo come delle cascate di ruscelletti apparentemente innocui possono dirupare rovinosamente a fondo valle. Si parte da un particolare da niente, come in Nuvole del sud, dove l’io narrante ricorda (da dove?):  “Stavo percorrendo per l’ennesima volta lo svincolo maledetto che, evitando Napoli, sfiora Salerno, per immettermi in quel Regno d’Italia...” e, nel crescendo d’una poesia che ti fa accapponare la pelle a tua insaputa, conclude: “Piano piano salivo verso l’alto, la scena rimpiccioliva e stretto tra i denti della nuvola, finalmente ridevo: era finito infine quell'ignobile tragitto Roma Reggio Calabria”. Quest’è l’unico racconto di cui ho tradito l’alfa e l’omega. 
   L’ho fatto solo perché la mia similitudine con le cascate non risultasse retorica. Seguono due racconti che paiono lo scorrere d’un fiume verso il mare, con gli scrosci finali dello scontro dell’acqua dolce con le onde salate. Nel primo, Viola, il tema conduttore è l’adagio che l’amore ringiovanisce sempre (non tradisco la storia nemmeno a pagamento). 
   Quest’amore cresce, cresce per pagine e pagine, e che succede? Del secondo lungo ugualmente - ultimo di questo bellissimo volumetto - non dico niente, per non derubare ulteriormente i lettori dell’ avventura di questi straordinari racconti serenamente crudeli.
Luce d’Eramo



recensione WLT
1. SILVIE 

  Avrei potuto non guardarla? Impedire agli occhi di correre e percorrere la sua figura, lo spazio che occupava? Avrei forse fatto bene a non svegliarmi quel giorno - sono incontri così, strani se vogliono apparire. - Niente faceva supporre la sua apparizione in quella determinata ora, giorno, via, città - nessuna manifestazione d’alcun genere - eppure passò proprio a poche decine di centimetri. 
  Per rendere qualcosa - anche se incredibile e poco probabile, comunque inimmaginabile - era di quelle che si usavano una volta e che oggi si usano solo in qualche film o mostra fotografica - indossava un viso ovale offuscato di una rada patina d’antichità, non pensate coperto da ciprie o cose del genere (che non so neppure descrivere per colossale ignoranza nel settore e non voglio assolutamente documentarmi in altri romanzi, non v’è simile) né giù, scendendo, come s’usa fare con sfrontatezza maschile, vi fossero merletti od altro di appariscente o decorativo. 
  Guardavo senza riuscire a comprendere da dove venisse quell'aria e non pensate neppure che questo personaggio potesse in qualche modo ricordarmi le donne di Poe o di Lovecraft o quelle di Balzac; affatto! Sebbene vi scoprissi l’infelicità, quell'aria - non c’era altra soluzione - era dovuta all'infelicità dolce che sicuramente si celava nella sua anima (ammessa tale presenza) nutrendola sin da piccola. Ma di che tipo potesse trattarsi continuo a chiedermelo mentre scrivo. Avrei potuto scoprirlo parlandone con qualcuno, (forse) ma il timore che questi se ne potesse in alcun modo innamorare me lo ha impedito fin qui, ed è appunto, scrivendo - sono convinto del libero evolversi dei miei pensieri sulla carta (la faccenda del subconscio) - cerco di scoprire cos'è che distingue un pezzo antico dal moderno, quale sia il tocco che rende due prodotti simili nella forma e diversissimi nella sostanza. 
Nel pensare adesso all'amore che può provocare, data la poca disponibilità a questo sentimento, con tutto ciò che oggi si deve fare coniugato a ciò che ci proponiamo di fare al più presto - mi sento nuovamente bloccato dal timore e non riesco a scrivere di lei con la libertà che mi ero prefissata. 
   Potrei pregarvi di leggere comunque il resto col distacco che usate nel guardare la tivvù o con la superiorità che ci spinge a vedere l’ultimo film di Fellini o ancora meglio con quella leggerezza che ostentiamo nell'utilizzare i carrelli dei supermercati facendo la spesa. Solo così posso avere la certezza che rimaniate immuni dal fascino che - scordavo di dirvi - ha suscitato in me la vista della donna... come possiamo chiamarla, un nome non comune, opterei già per Silvie, lasciando la non comunità nell'ultima vocale: e, eh! 
    Dunque Silvie passò a pochi metri da me, andando per la sua strada (che fosse sua è molto improbabile, però da come i passanti le facevano spazio, non impossibile). Non che il suo andare fosse maestoso, tutt'altro, nessuna presunzione, andava, seppur dritta, con andatura abbastanza modesta. Io invece dovetti lasciare la mia di strada, costretto dall'accadimento ad usare la sua. Andai dubbioso all'inizio, poi, sempre più deciso, ad ogni passo convincendomi che quella era l’idea da seguire.
Foto: Dino Ignani
    Non si fermò mai! Ero fermamente convinto che prima o dopo entrasse in qualche negozio o almeno si fermasse a guardarne le vetrine, oppure che quest’idea venisse all'altra donna al suo fianco (certamente la madre o no? cosa c’è di certo?) che le stava dietro, meno d’un metro, non trascurando mai tale distanza. Era pattuito? 
    Io timido lo sono per natura, tant'è che mi decido solo ora, dopo tanti anni a parlarne, non potendo più perdurare questa condizione di attesa che mi ha impedito d’ammogliarmi, avere figli, amanti e quant'altro è comune ad un uomo nel fiore degli anni e dcl vigore. Camminarono tutto il giorno, con me sempre dietro di un passo. Ogni tanto mi facevo avanti, le superavo di qualche metro, tornavo indietro, la guardavo fisso negli occhi: verdi, opachi, in burrasca e poi calmi e ancora, feroci. 
   Tornai sfinito dopo che furono entrate in un palazzo enorme, con grandi balconi, di stile gotico. Non l’avevo mai notato prima un palazzo così nella mia città e in quella strada piena di ville liberty. Andai fino in fondo alla strada, due o trecento metri, come si fa a misurare, data l’enorme emozione che travolgeva tutto il mio essere? Tornato indietro non riuscii più ad individuare il portone: a destra, forse sbagliavo, era a sinistra, la mia incertezza era simile allo stato confusionale che travolgeva le politiche di destra e di sinistra di tutta Europa. 
Uno dei tanti 'biglietti' di Lucetta
   Ma neppure, come gli europei, essendo un uomo innamorato, quindi del mondo intero, potevo optare per il centro. Al centro non poteva sorgere alcun palazzo, non avevo svoltato alcun angolo, non c’era alcun dubbio: svanito. Potete immaginare come diverse ore dopo rientrai a casa, distrutto, stanco, avvilito, ma ripromettendomi l’indomani di percorrere lo stesso tragitto fino alla scomparsa della mia Silvie. Sentii subito la necessità di lavarmi, di togliermi il sudore e la tristezza di dosso, di dimenticare, almeno per ripensarci dopo, con calma, a letto, nel buio, quando si riflette a lungo, noi insonni, sugli accadimenti del giorno trascorso e sui propositi dell’indomani. Un colpo al cuore, come si dice. 
   Nel guardarmi allo specchio mi sentii gelare: quegli occhi verdi, opachi, in burrasca e poi calmi e ancora, feroci avevano sostituito i miei. 
  Come avrei fatto? come potevo andare in giro così, senza essere notato, come mi sarei presentato al lavoro, agli amici, a mia madre? Ho provato e riprovato a guardarmi allo specchio, ho usato la camomilla e il collirio. 
Ho dovuto cambiare casa, città, regione. Sono qui rinchiuso da diversi anni. Non esco più. Mille tentativi per far svanire l’infelicità da questi occhi. Niente. Mi rimane soltanto di sperare che qualcuno, leggendo questa mia disavventura, possa, dall'esterno aiutarmi a ritrovare la mia serenità, il mio sguardo ironico e talvolta felice. 
      Se avete notizie telefonate, vi prego, al 6663166631666, prefisso, per chi chiama da fuori Roma: