Anna Maria Ortese: Il treno russo, Le rose di Vienna

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3. Le rose di Vienna

L’indomani mattina era il 2 luglio. Svegliandomi vidi attraverso il finestrino un cielo calmo, coperto. II fremito continuo del treno, quel tran tran sotterraneo che faceva tremare senza sosta il lettino e vibrare impercettibilmente le pareti, ogni oggetto, mi ricordarono ch'ero in viaggio, che avevo varcato il confine sovietico e correvo adesso verso Mosca. A questo pensiero, all'idea di trovarmi in territorio russo, provai non so che turbamento e tutto il mio cuore si strinse per un attimo nel desiderio dell’Italia.
Per fortuna, questa vertigine passo subito. Successe nella mia testa un silenzio inerte. In quel silenzio (solo per un momento, guardando il finestrino, avevo aperto gli oc- chi, poi li avevo richiusi, e i miei vicini dovevano essere convinti che io dormivo) sentii i coniugi Ivànovic discutere sottovoce. Non vi fu nessun dubbio, mentre osservavo tra le ciglia il volto crucciato di Lucia, e lo vedevo rivolgersi a me e guardarmi come si guarda qualcosa che ci appartiene e che si sta difendendo, che la discussione avesse per oggetto la eccessiva familiarità dimostratami dalla donna. Per qualche motivo che non mi era dato di capire, e a cui doveva essere estranea la preoccupazione di recarmi noia, Nicola Ivànovic rimproverava la moglie di quella familiarità con una sconosciuta. Essa (a quanto mi pareva intendere giudicando dalle occhiate che mi lanciava) doveva rispondergli che non c’era nulla di male, che infine dividevamo lo stesso scompartimento, ed era impossibile non parlarci. La diffidenza di quell'uomo, la sua ostilità non mi fecero alcun male e neppure mi sorpresero, le trovavo naturali in un uomo un po’ pavido e pieno di complessi; mi commosse invece la bontà di Lucia e, strano, invece di acuire la mia tristezza, questo fatto parve alleviarla.
La porta dello scompartimento si schiuse, lasciando sporgere la testa di una inserviente che offriva te e cioccolata calda.
Nicola Ivànovic acquistò tre bicchieri di cioccolata, contando il denaro in mano alla donna, e io, mentre salutavo Lucia, presi un bicchiere di te.
Nel breve tempo che la porta era rimasta aperta, avevo veduto in corridoio delle teste scarruffate, dei pigiami a righe e sentito piangere un bambino nello scompartimento vicino. Un militare anziano, con la testa massiccia e nuda come quella di Mussolini, e due occhi azzurri, penetranti, la divisa leggermente in disordine, era in piedi nel corridoio, guardando la pianura.
Mi vestii in fretta, badando come per tacito accordo aveva fatto ciascuno di noi, a svolgere tutta questa manovra al di sotto del lenzuolo; alla fine, infilate le scarpe, uscii nel corridoio per andare a lavarmi.
Non c’era molta gente, in corridoio, perché quasi tutti i viaggiatori erano ancora a letto. Le porte erano aperte o semiaperte, e si vedevano gli interni tranquilli, con le tendine accostate, qua e là una piccola lampada ancora accesa. Chi non era a letto, era seduto sull'orlo della cuccetta disfatta, con le lenzuola che venivano fino in terra, e che purtroppo, fino alla fine del viaggio, nessuno doveva mai raccogliere. I portacenere erano pieni di pezzi di carta, e ogni tavoletta sotto la finestra dello scompartimento era ingombra di alti bicchieri da te, vuoti, col cucchiaino dentro. Molte scarpe erano fuori le porte, e altre scarpe o pantofole nell'interno, in mezzo ad abiti ed asciugamani ammucchiati alla rinfusa.
C’era un silenzio incredibile per una classe popolare, come un’aria di domenica triste, in cui la gente si attarda nei letti niente affatto pensando, odorando l’aria pura che viene (dai campi attraverso le finestre aperte. Quei visi, di uomini o donne, di vecchi o bambini, che potevo intravedere qua e là, appoggiati sui cuscini, o quel gomito sul cuscino e la mano sotto la fronte - nell'altra mano un giornale che era spesso la Pravda -, quei visi, come quelli del treno di Praga, non esprimevano niente e, solitamente, mostravano d’ignorarmi, benché poi, allontanandomi e guardando per caso di nuovo indietro, scorgessi alcune pupille in atto di fissarmi.
Se questo riserbo facesse parte della natura della gente, te esprimesse una esigenza naturale o rappresentasse un lato provvisorio della loro vita, io non avrei saputo dirlo. Vera è una cosa: che le folle, la gente - o gruppi di più  persone, in pubblico durante il mio viaggio in quel territorio, le ho viste sempre così: inerti, fredde assorte. Erano come il mare guardato da lontano: una linea morta, plumbea. Mi accostavo: ecco un fragore, un movimento, una gioia. Ecco le onde. II profondo mare dell’animo russo da lontano è nemico. Da vicino, è fresco, colmo di suoni.
Riattraversando il corridoio, provai un vago malessere, e mi accorsi che faceva caldo e tutti i vetri erano ermeticamente chiusi, essendo questi treni attrezzati soprattutto per i lunghi viaggi invernali. Non sapevo in che modo procurarmi un po’ d’aria e, dall'orrore che ciò non fosse possibile, mi sentii la fronte diventare ghiaccia.
L’ufficiale calvo che avevo visto in corridoio svegliandomi, era ancora lì. Comprese, dal modo in cui posavo la faccia sul vetro, che mi sentivo male, e accostandosi, molto cortesemente, manovrò una leva: una striscia di vetro, nella parte superiore del finestrino, si staccò dal vetro fisso, e cominciò a salire. Entro l’aria, un filo di vento, l’odore della terra: quanto mi bastava a riprendere vita.
Sotto il finestrino c’era un sedile di legno. Sedetti lì, con addosso uno scoraggiamento confuso, dovuto alla mia salute malferma, e al timore di questo ignoto in cui mi avventuravo. Lo sguardo dell’interprete era stato umano; piena di grazia era quella giovane del popolo che cantava per consolarmi, e squisitamente affabili le maniere di Liza e degli ufficiali. Ma che cosa c’era dietro tutto questo? Ricordavo tanti altri piccoli particolari: la ragazza ed il ragazzo che, sul treno di Praga, non avevano mai lasciato di guardarmi e, alla fine, mi avevano stretto con tanto amoroso calore la mano; 1’operaio che, all'alba, aveva voluto aggiustare la cerniera del mio sacco, per dirmi con quel piccolo gesto che non temessi, avessi fiducia, e la sua faccia dolcissima, gli occhi pieni di una luce di fiume. Ecco ancora la donna del ristorante nella stazione di confine, che mi sorride furtiva e dolce passando dietro la sedia dell’interprete; ecco ancora il sorriso, pieno di una misteriosa gioia, della cameriera del ristorante, così bruttina e così stranamente felice. Ma che cosa c’era dietro tutto questo? Da trent'anni io sentivo parlare della Russia come di un paese spiritualmente spento, moralmente deserto, cupo, dove gli uomini avevano praticamente ucciso tutto quanto riguardava il cielo, dove della libertà individuale si era perduto ogni senso. Ed ecco, era questo che mi stordiva: il non vedere alcun nesso tra queste asserzioni, tra la durezza di cui si parlava e la bontà innata, la bellezza orale, quello sfolgorio tranquillo che coglievo in tanti guardi. Poco alla volta, mi persi in strani pensieri.
Mi tolse da questo stordimento la voce di Liza. Passava di là, mi aveva vista; sorrise: avevo dormito bene?
«Benissimo, grazie».
«Dovreste venire a tavola, per favore. Sono già le dieci».
Mi parve, se possibile, più  alta. Ma l’abito era anche più sciupato e sul volto c’era una stanchezza, o un’ansia, leggermente più accentuata di ieri sera. Gli occhi mandavano lampi. Non sorrideva, eppure la sua voce educata mi parve- anche più amica mentre mormorava quelle poche parole.
Mi dispiacque per gli strani pensieri che essa poteva aver letto nel mio viso quando era sopraggiunta. Mentre percorrevamo, dirette al ristorante, il lungo corridoio, Liza disse: «Tutti dormono, avete notato?»
«Molti non dormono, ma sono rimasti a letto ugualmente».
« È lo stesso. Stanno zitti e pensano. In questo modo riposano».
«Pensate che siano tristi?», chiesi involontariamente.
Usavo anch'io, senza accorgermene, il voi.
«E voi, pensate forse che io lo sia?», disse Liza curiosamente.
«No... non proprio», dissi confusa.
II treno oscillava violentemente.
«Venite, datemi la mano».
Quando entrammo nel ristorante, in quel momento preciso, dal cielo coperto venne fuori un gran raggio e illumino tutti i tavoli. Vidi laggiù, al solito posto, i due ufficiali, già seduti. Sembravano di metallo dorato. Alle loro spalle, due giovani in abiti civili e piuttosto eleganti, molto alti. A destra, a sinistra, avanti, indietro., a quei quindici o venti tavolini, sedevano altri soldati e ufficiali sovietici, dall'aspetto curato eppure modesto, insieme a donne e ragazze con qualche pretesa d’eleganza, - come un cappellino ornato di un nastro di velluto rosso, - e, vestiti completamente di nero, due cinesi.
Su ogni tavolo c’erano insalata di cetrioli, champagne, caviale, pane scuro e pane bianco. A qualche tavolo, la cameriera serviva del cioccolato caldo.
Come ieri sera, Pietro sedeva di fronte a me; mi parve per un momento, mentre il sole, uscendo dalle nuvole grigie, lo avvolgeva, più pacato. Qualcosa come un sorriso vagava nelle sue pupille azzurro cupo. Volgendosi a Liza mormorò alcune parole in russo, poi, come aspettando, guardò me.
«Pietro dice», tradusse Liza, «che il sole e dolce in Russia, se il cuore è in pace».
«Oh, sì!» dissi commossa.
Liza ripete a Pietro la mia esclamazione.
L’ufficiale si volse ancora a Liza. Parlava con la dolcezza di una donna.
«Pietro spera», disse Liza, «che questo sole vi accompagni fino a Mosca e poi durante tutto il tempo che rimarrete in Russia e, tornando a casa, lo ritroviate sulla soglia della vostra casa».
Queste parole produssero su di me un’impressione violenta. Non potei rispondere nulla e abbassai lo sguardo sul tavolo.
Poco dopo, ecco ancora, davanti a me, una mano spingere un bicchiere di champagne.
Lo sollevo con mano incerta. Non ho mai bevuto a quest’ora del mattino, ma sento che qui tutto e possibile. Infine non sono sicura se questo vino sia solo champagne, o non, anche, sole. Vedo, in mezzo a un gran tremolio, gli occhi azzurri e gravi di Pietro fissare ancora lontano, con quello sguardo da prigioniero, quella pura calma. Vedo gli occhi di Liza abbassarsi; quelli di Sergio guardare tranquillamente la tavola, e Liza, e il sole, con una freddezza non riva di comprensione e pietà.
II treno è fermo in mezzo a una campagna gialla. Nel cielo, qua e là delicatamente azzurro, volano bassi i corvi.
Sergio si curva in avanti sul tavolo e mormora qualche cosa a Liza
Liza traduce: «Sergio vi domanda se vi meravigliano molto questi corvi».
«Sì. Mi sembrano incomprensibili. La natura appare pacata e materna, e questi corvi sembrano graffi sulla fronte. Si direbbe che essa si tormenti per qualche cosa».
Liza tradusse. Sergio ascoltò gentilmente, poi parlò, con un tono direi mondano, e Liza, esitando, tradusse ancora: «Sergio dice che avete ragione. II nostro paese è pieno d’incognite, molte cose vi turberanno, ma egli è del parere di Pietro: il sole è dolce anche in Russia se il cuore è in pace».
Così dicendo, tanto Liza che Sergio non guardarono me, ma per un attimo, sorridendo, passarono lo sguardo intorno alla testa e al petto immobile del loro malinconico compagno.
Dormii durante tutto il pomeriggio - ma dormii male. II mio stato d’animo - il terrore del viaggio, la distanza dall'Italia - ancora mi accompagnava; ma non era più solo, era alleggerito e aiutato da altri pensieri. Questi pensieri riguardavano la Russia, i miei compagni, tutta la gente che incontravo. Io ero una persona comune introdotta in un mondo di cui non esiste da noi alcun presupposto. Ero come uno vissuto sempre in mezzo a una folla di maschere e di commedianti, che improvvisamente si imbatte nella realtà dell’uomo. Questo scendere continuo dei discorsi (e con una straniera) alle cose più universali, questo linguaggio senza equivoci, quest’uomo senza equivoci, e il loro essermi vicina («venite, datemi la mano... Sergio dice... Pietro spera che questo sole... » ecc.). Unico dubbio: forse non erano sovietici, come avevo pensato la sera prima, la Rivoluzione non era passata sulle loro teste, come non aveva neppure sfiorato quella dei coniugi Ivànovic.
In questo dormiveglia, tra immagini fuori del comune, che io tentavo di analizzare, in una disperata volontà di riportarle alla nostra stretta misura occidentale, sentii che gli ,Ivànovic continuavano a discorrere. Poi sentii che Lucia mi metteva un cappotto sulle spalle. Silenzio. Poi si continuava a discorrere. Lucia non rideva. Parlava turbata, come se qualcosa di probabilmente spiacevole l’aspettasse a Mosca. Ma perché non pensava a questo già da ieri sera? Perché, ieri sera, rideva cosi beatamente? Probabilmente rideva per- che aveva cantato, e aveva cantato perché era in pena per qualche cosa. Sì, doveva essere cosi.
Mi tirai su di colpo. Mi ero ricordata che avevo promesso a Liza di portarle lo scialle, e ancora non lo avevo fatto. II sole era nuovamente al tramonto, ed essi dovevano già trovarsi a tavola. Insieme allo scialle, presi un piccolo fazzoletto di seta, a splendenti quadri colorati, e lo misi da parte riservandomi di offrirlo a Lucia più tardi, in un momento che Nicola non ci osservasse. Vidi Lucia sdraiata sul lettino, nell'identica posizione della sera prima, ma con un viso pensieroso, farsi vento col fazzoletto: i suoi occhi alla fine di quella discussione, erano umidi e grandi come se avesse pianto. Sembrava assorta, e quasi non mi vide, mentre uscivo dallo scompartimento.
Rifeci, come la mattina, tutto il cammino dei corridoi, per arrivare al ristorante. Forse perché avevo dormito di pomeriggio, e male, mi sentivo turbata. O forse vedevo troppo, non so. Le porte degli scompartimenti erano sempre aperte e i lettini occupati da persone immobili, sdraiate. Le luci del treno non erano ancora accese, e quelle della natura già spente. La campagna, fuori dei finestrini, passava ora come un’ombra.
Entrando nel ristorante, vidi che il posto di Pietro era vuoto, mentre Liza e Sergio sedevano regolarmente ai loro posti. Supposi che l’ufficiale fosse sceso a qualche stazione durante il pomeriggio, mentre io dormivo, ma Liza mi disse che era ancora sul treno (senza spiegarmi perché non veniva a cena), e anzi mi avrebbe fatto compagnia l’indomani, a tavola. Loro due, invece, mi avrebbero lasciata quella sera, sarebbero scesi dal treno alle dieci.
II volto di Liza, nel dirmi queste cose, era calmo, e i suoi piccoli occhi chiari avevano una durezza ch'era semplicemente un modo per respingere le lacrime. Come per caso, i suoi sguardi andavano continuamente al posto deserto, e subito se ne ritraevano.
Le detti lo scialle, ed essa si soffermò a carezzare quella seta, inconsciamente, freddamente.
«Com'è bello! Vi ringrazio!» disse poi alzando un piccolo viso disperato.
Sergio le mormoro qualcosa.
«Sergio dice», essa ripete rigidamente, «che vi cercheremo a Mosca tra qualche settimana, e passeremo una graziosa serata insieme».
«Grazie», dissi. Chinai la testa perché sapevo che ciò non sarebbe mai accaduto. Per molto tempo Liza avrebbe cercato di non vedere nessuno, e in quanto a me, queste care persone sarebbero fuggite per sempre dalla mia mente.
Era la seconda notte che passavo in territorio russo, ma la prima che mi accadeva di essere triste pensando a qualcosa che non era il viaggio e la lontananza dall'Italia. Non presi sonno che all'alba, ed ecco un improvviso, doloroso risveglio.
Lucia Ivànovic è in piedi vicino a me, in camicia, con la faccia inondata di lacrime. Mi tocca timidamente sulle spalle, per svegliarmi, e fra i singhiozzi mormora chiaramente: «Rose! Rose! Souvenir Wien! Rose non più!».
Chiudo gli occhi, li riapro. La luce grigia dell’alba invade lo scompartimento, mentre la natura, dietro il finestrino, continua a passare come un’ombra. II dolore di Lucia, la notizia che le rose sono scomparse, mi colpisce improvvisamente come una sventura. La colpevole sono io: per due sere di seguito, senza dir nulla a Lucia, ho messo il vaso dei fiori dietro la porta, affinché non si corrompa l’aria.
Mi alzo a metà sul letto, avvilita e infelice. Nicola e il cugino, dopo aver confabulato un poco, escono, e Lucia rimane seduta sul lettuccio a piangere. Mi guarda con gli occhi spalancati, pieni di una disperazione infinita, occhi di bambino deluso, colmi fino all'orlo di lacrime, e tra quelle lacrime la mia figura deve tremare in modo orribile. Piange e ripete: «Rose! Rose! Souvenir Wien! Rose non più!».
Di colpo la porta si riapre, rientrano Nicola e il cugino seguiti da un militare anziano tutto assonnato. Comincia una spiegazione interminabile, accompagnata da una quantità di gesti. Lucia va al tavolino, fa coppa con le mani imitando qualcosa che si apre; poi mostra la porta, esce fuori , dalla porta e si piega per mostrare il posto in cui e stato collocato il vaso delle rose. Si rialza, rientra, va fuori di nuovo, guarda in terra, esce in una esclamazione di stupore: «Rose non più!».
II militare, il cugino e Nicola escono di nuovo per una ispezione. Adesso sono io che piango, senza accorgermene, piano piano, fissando il filo grigio della pianura che si solleva continuamente dietro il finestrino. Piango, ma per poco, perché due braccia calde, mi circondano il collo, una guancia calda si posa sulla mia fronte e un fazzoletto grande come un lenzuolo, rosso e bianco, mi viene passato adagio sul viso.
«Pardon! Pardon!» mormora teneramente sulla mia fronte Lucia Ivànovic. Dice parole in francese, in russo, incomprensibili, rotte, affannose. Dice: «Lucia non più», vuole dire Lucia non piange più, e si tocca, piena di lacrime nel suo sorriso, i grandi occhi neri, e continua a carezzare i miei.
Rientrano il militare e i parenti portando in mano il vaso di vetro. E tutto ciò che hanno potuto recuperare.
Hanno trovato il vaso di vetro in qualche posto, mentre le rose soffocano di certo, rubate per amore, per desiderio di giardino, in qualcuna di quelle stanzucce piene di gente immobile che sogna.
E Mosca si avvicina.
Sono forse le dieci, mancano poche ore all'arrivo, e sento Mosca già nell'aria, come una presenza immensa, vaga di cupole dorate, misteriosa, febbrile. Benché non ci sia nulla che parli di costruito, qui intorno, benché col viso al finestrino del corridoio, non veda che campi di grano, casupole, boschi e, sul cielo di maiolica celeste, non passino che i corvi e, per un attimo ogni tanto, figure di contadini e soldati, sento che la città si avvicina. Nel silenzio, nel sole.
Sul treno, negli scompartimenti, comincia una lieve animazione. Si disfano i letti, si riordina la roba, si rifanno, con una cura meticolosa, infinita, le valigie. Anche gli Ivànovic sono occupati in questo: lei è più svelta, ma Nicola asciuga già da due ore il vaso di vetro e lo riempie di carta straccia.