Catania, Guida ai monumenti, Muglia, 1974, ottava parte

Luccjo Cammarata e Beppe Costa: Catania,
Guida ai monumenti, Muglia, 1974


La città che diede i natali al genio del melodramma

Vincenzo Bellini fu il musicista dagli slanci sognanti, dalle ansie cocenti, che seppe rendere i melanconici dolori caratteristici di un romanticismo incerto fra serenità e umano sconforto, giungendo a una purezza di espressione vocale, ad un’immaginazione melodica, ad una limpidezza di espansione sentimentale, che furono tali da farlo ergere al di sopra di ogni altro compositore del suo tempo. Assieme a Rossini, più di Donizetti, egli è il massimo esponente dell’operismo italiano. Lirismo puro, quello delle sue opere, tra cui spiccano «Il Pirata» 1827; «La Sonnambula» 1831; «Norma» 1831; «I Puritani» 1835. Compose, inoltre, «La Straniera», «Capuleti e Montecchi», «Beatrice da Tenda», nonché molta musica di chiesa tra cui quattro messe, la più importante la «Messa Seconda». Questo autentico genio che racchiudeva in sé il temperamento idillico e tragico, sentimentale e focoso, comune a tutti i catanesi, fu stimato e tenuto in altissima considerazione da quanti lo avvicinarono. Godette della ammirazione di Wagner, che non fu certo estraneo alle sue influenze, e lo stesso Donizetti compose una Messa da Requiem in memoria dell’illustre estinto.
Di questo suo grande figlio Catania ha cercato sempre di tenere vivo il ricordo, e riconoscente ne ha esaltato gli alti meriti anche attraverso i monumenti a lui dedicati.
Nel 1923, non senza sforzi, si riuscì a far dichiarare monumento nazionale la casa natale del musicista, che ivi nacque il 3 novembre 1801, trasformata in seguito in Museo Belliniano. Si tratta d’un appartamentino sito all'interno del palazzo Gravina-Cruyllas e a cui si accede dal numero civico 3 di piazza S. Francesco: attraversato il cortile dell’edificio, un cancelletto in ferro porta, attraverso una minuscola scala, all’ingresso. I cinque ambienti che formano i locali' (tre ampie stanze e due piccoli vani) sono divisi in altrettante sale. Nella prima saletta si ammirano una serie di stampe ottocenteschi illustranti i luoghi cari all’infanzia del compositore; vi si trovano, inoltre, tutte le deliberazioni del Comune a favore del musicista: da quella della concessione d’una borsa di studio a quella di tributare solenni onoranze funebri alla su memoria e di erigergli un monumento. Nella sala B si trova l’alcova in cui sarebbe nato Bellini; vi è inoltre posto il pianoforte di famiglia, sul quale pare che il Maestro nel 1832 abbi eseguito «Norma» per farla ascoltare ad alcuni nobili che si trovavano nel suo appartamento milanese e ai familiari.
La sala contiene cimeli e testimonianze del sua vita, nonché una raccolta iconografica del Maestro a partire dal calco originale della maschera funebre riprodotta in cera.
Tra ì ritratti, eseguiti mentre egli era ancora in vita, notevole l’incisione di Natale Schiavone del 1830, quello che ce lo mostra in età giovanile del Maldarelli, l’altro del Platania, nonché il finissimo bustino di J. P. Dantan del 1835 che è l’ultimo ritratto di Bellini prima della morte.
Sempre nella stessa sala, due ritratti (uno a pastello, l’altro a matita) dell’amica del musicista, Giuditta Turina; inoltre, nelle bacheche, si trovano oggetti personali, lettere autografe, l’atto di morte, il referto medico dell’autopsia, la lettera autografa di Rossini annunziante la morte del Maestro.
Nella sala C, si trovano i ricordi iconografici della vita del Cigno catanese, nonché le testimonianze dei suoi rapporti con gli amici e le personalità del tempo. Vi si trova, inoltre, il cembalo appartenuto al nonno del compositore (Vincenzo Tobia Bellini) che servì al genio giovinetto per comporre le prime melodie.
La sala D è dedicata alle composizioni autografe belliniane, a partire da un «Tantum ergo» (composto a 9 anni), alle musiche sacre e profane del tempo dei suoi studi napoletani, sino alla serie delle composizioni teatrali, quali la partitura dello «Anderson e Salviati» (rappresentato nel 1825 nel teatrino del Conservatorio), i fogli autografi della «Bianca e Fernando» nelle due edizioni (una si tenne nel 1826 al S. Carlo di Napoli, l’altra nel 1828 inaugurò il Carlo Felice di Genova); nonché tutta una serie di spartiti che vanno dallo «Zaira» a «Capuleti e Montecchi», opera dedicata ai catanesi.
Particolarmente interessanti le partiture dei «Puritani» che Bellini adattò alla voce di Maria Malibran contenenti dei brani inediti; sono inoltre di notevole interesse un gruppo di fogli contenenti appunti musicali del Maestro e in cui troviamo brani dell’incompiuto «Emani».
Nella sala E troviamo cimeli e ricordi della traslazione della salma da Parigi a Catania avvenuta nel settembre 1876.
Annessi al Museo Belliniano si trovano una biblioteca di cultura musicale e il Centro Studi Belliniani. Nella biblioteca sono conservate composizioni di musicisti catanesi come il Pacini, Geremia, Malerba, Ascanio Bazan, Francesco Frontini, Alfredo Sangiorgi, Pietro Coppola, Pietro Platania ed altri.
Il monumento in onore di Bellini sorge al centro di piazza Stesicoro e venne eseguito da Giulio Monteverde (1880-82); fu inaugurato il 21 settembre del 1882. L’opera è concepita come una colonna a sezione quadrata che si eleva su sette gradini; la statua è posta alla sommità e raffigura il Musicista seduto in poltrona e con in mano alcuni spartiti. Ai lati del parallelepipedo sorgono quattro figure simboliche: «La sacerdotessa Irminsul» (per «Norma»), «Arturo» (per «I Puritani»), «Aminta» (per «La Sonnambula»), «Gualtiero» (per «Il Pirata»): ogni statua poggia sopra i gradini: sull’alzata sono incise le note del «leit motiv» dell'opera. Date le pessime condizioni in cui si trovava, il; Comune ha fatto recentemente restaurare il monumento e, grazie all’opera dello scultore Rosario Frazzetto (1963), possiamo oggi ammirarlo nella sua originaria fattura.
Di ispirazione sansoviana (la facciata ricorda quella della biblioteca di Venezia) il Teatro Massimo Bellini sorge sulla piazza omonima. Realizzato da Andrea Scala, fu portato a termine dal suo collaboratore Carlo Sada che apportò dei cambiamenti al progetto originale. Di discreto effetto monumentale, la facciata è abbondantissima di decorazioni e di bassorilievi simbolici sparsi ovunque, arpe, lire, aquile, busti di musicisti, flauti legati da nastri neoclassicheggianti, tutti opera dello scultore Giulio Moschetti. Bellissima è la sala interna a quattro ordini di palchi più il loggione, di gusto molto raffinato, e culminante nella grande volta decorata da un magnifico affresco di Ernesto Bellandi raffigurante «L’apoteosi di Bellini»; mentre la parte ornamentale è del grande decoratore Stella. Il sipario, raffigurante «La vittoria dei catanesi sui Libici» è opera di Giuseppe Sciuti. Degne di citazione le decorazioni del ridotto, opera del pittore Natale Attanasio.
Di questo teatro (inaugurato la sera del 31 maggio 1890 con l’opera «Norma»}, Beniamino Gigli ebbe a dire nelle sue memorie che ha la più bella sala di teatro al mondo; per parere unanime, la sua acustica è la migliore fra quella dei teatri d’opera europei: a noi stessi è capitato questo fatterello che può dare un’idea della perfezione della resa musicale. Mentre veniva eseguito l’AIlegro di una sinfonia (musica ovviamente fragorosa e altisonante), il suonatore di flauto smontò il suo strumento e cominciò ad esaminarlo, evidentemente avendo riscontrato qualche difetto di suono; orbene, tutto il teatro si accorse del fatto non perché avesse notato la manovra (eseguita con la massima discrezione) bensì perché si sentì benissimo, pur nel fragore prodotto dall’orchestra, il rumore prodotto dalla separazione del boccaglio dello strumento dalla sua tastiera!

Dopo l'Unità d'Italia

Partiti dalla preistoria, eccoci giunti al termine dell'excursus nel tempo attraverso la città che, come abbiamo potuto constatare in questa veloce carrellata, non fu certo priva di gloria e di ingegni.
Diciamo «al termine» perché ci guardiamo intorno non riuscendo a ritrovare il fascino e l'esuberanza creativa che abbiamo colto in quelle opere settecentesche che han merito d’averci stimolato e spronato in questo lavoro compiuto a ritmo sfrenato che in parte giustifica le manchevolezze cui siamo incorsi. Del che ci scusiamo con i lettori. Onestamente sentiamo il bisogno, più che il dovere, di far presente che Catania con l'unificazione o meglio, sotto il governo piemontese, cessa nel ruolo di città viva, cosa del resto avvenuta a molte altre città italiane, perdendo quelle iniziative culturali e politiche che in passato avevano spesso fatto sentire il loro peso, a volte in maniera pressante, tal altre in sordina.
Nell’ormai modesta provincia del Sud, il popolo catanese si adatta alla nuova condizione con l’apatia e il fatalismo tipici delle genti del meridione le quali sempre poco hanno sentito la partecipazione ai governi che per secoli si sono succeduti, considerandoli estranei alla loro vita sociale, non tanto perché invasori, quanto perché i suddetti governi nulla mai fecero per tentare almeno di capire i problemi del popolo del Sud. Non più quindi città di cultura, «Albergo del Sapere», come ebbe a definirla il Tasso nella «Gerusalemme conquistata» (cant. I, St. 70), ma provincialismo gretto, dove nulla più accade. Finiscono i fasti delle corti del vicereame. L’ultimo re che visitò la città, anche se un borbone, fu Ferdinando I nel 1816.
Non è questa la sede, né compito di quest’opera cercare di approfondire i motivi politico-economici che determinarono questo stato di cose, ma dobbiamo constatare che niente di veramente fecondo può nascere quando mancano gli stimoli necessari alla creazione e cioè gli eventi storici favorevoli allo sviluppo di una società. In pratica, ad un esame di questo periodo, guardandoci intorno, troviamo il deserto. Non sono certamente quei pochi e mediocri edifici già citati e sorti alla fine dell’ottocento che possono dare lustro ad un’epoca che dovrebbe invece contenere il seme del rinnovamento com’era da attendersi da una nazione in formazione. E meno ancora lo sono i pochi monumenti sparsi nelle rare piazze, spesso mal realizzate e raffazzonati nelle successive modifiche o nuove sistemazioni che si è creduto dare.
Ma di quali monumenti stiamo poi parlando? Forse di quello equestre ad Umberto I di Savoia o dell'altro a Garibaldi di Ettore Ferrari eseguito nel 1912, a fianco dei Giardini Bellini? Di un certo interesse potrebbe essere la Fontana di piazza Giovanni XXIII, prospiciente la Stazione Centrale ed è certo la più significativa opera eseguita dallo scultore Giulio Moschetti nel 1904: rappresenta Plutone che rapisce Proserpina: il gruppo è circondato alla base da figure femminili terminanti in sirene ed aggrappate alla criniera di cavalli imbizzarriti. Purtroppo l’opera è stata a suo tempo realizzata in cemento, con una vasca a livello del pianto stradale, tanto da non consentire un gioco d’acqua tale da rendere d’effetto il monumento senza allagare la piazza. A ciò si potrebbe certamente ovviare se le autorità preposte prendessero in seria considerazione la possibilità di far fondere in bronzo l’opera e realizzare una nuova vasca che fosse almeno ottanta centimetri più alta rispetto a quella attuale.
Così come si può notare gli albori del novecento colgono Catania in un vero decadentismo artistico e la situazione non muta certo intorno agli anni ’25-35 quando una architettura standardizzata, che è poi quella del regime fascista, tanto per intenderci, semina una serie di edifici di gusto assai dubbio, quale ad esempio il Palazzo della Borsa dell'architetto Platania, che sorge a piazza Stesicoro affiancando la Chiesa di S. Biagio, il Palazzo delle Finanze poi e l’altro degli Invalidi a piazza Teatro Massimo; la scuola G. De Felice a piazza Roma, l’ex palazzo del littorio in via Plebiscito e così discorrendo. Ma il maggiore esempio di questa architettura è costituito dal Palazzo delle Poste, opera del 1928, realizzata dall'architetto Francesco Fichera e che in sé riassume tutte le caratteristiche di quell’estetica a gusto neoclassicheggiante e priva di contenuti stilistici e funzionali di cui molti architetti di quel tempo si fecero portabandiera cercando di visualizzare le teorie estetiche del regime, teso a creare un tratto di unione tra le tradizioni latine dell’Italia ed il popolo avvilito degli Anni Venti.
Così come Hitler si riallacciò all’epopea nazionale germanica del medioevo, ripristinando la leggenda dei Nibelungenlied, il fascismo ricollegandosi a Cesare volle dare una carta di credito al popolo, spazzando millesettecento anni di sacrifici, lutti e oppressioni che, se è vero che lo avevano tiranneggiato, nel compenso lo avevano forgiato e arricchito di quel bagaglio di esperienze culturali di cui il genio italiano aveva saputo trarre quei profitti noti al mondo.
Certo che oggi la città non è, non può e non potrebbe essere più quella del Vaccarini; il progresso e l’avanzata tecnologica hanno modificato il concetto di architettura, dando all’estetica ed alla funzionalità valori diversi e senz’altro più utili per le esigenze dell’uomo. Purtroppo, oggi, questi principi sono insidiati dall’edilizia speculativa, che ha allungato i tentacoli in maniera smisurata e indisciplinata. Sono sorte nuove arterie, si è cercato di ristrutturare vecchie zone che senz'altro avevano bisogno d’esser sistemate ed in brevissimo tempo, nuovi quartieri sono divenuti popolarissimi. Eppure, nulla di tutto questo è stato fatto come si sarebbe dovuto.

Non vogliamo essere accusati di distruttivismo e neppure parliamo per puro spirito critico, ma solo perché crediamo che a Catania esistono le premesse di poter far bene e razionalmente, mentre le carenze e l'autodistruzione che giornalmente ci scorrono sotto gli occhi, sono per noi come un supplizio di San Bartolomeo.
Il risanamento della vecchia zona S. Berillo, che si estendeva al centro della città, con una serie di catapecchie e strette strade spesso di malaffare, una volta raso al suolo, avrebbe dovuto darci un insieme di arterie tagliate razionalmente e costruzioni funzionali e valide sul piano estetico: prima fra tutte, il corso Sicilia che avrebbe dovuto essere un rettilineo, che, partendo da piazza Stesicoro, giungesse alla Stazione Centrale; invece è nata una strada «asfittica», con un tracciato tutto particolare, realizzato a baionetta per favorire, scusate, salvaguardare non si sa bene quali monumenti storici inesistenti. Lo stesso dicasi per piazza Europa, parte terminale del corso Italia, dove, alla sua assurda strutturazione, si aggiunge l'indiscutibile pessimo gusto di una ridicola fontana, posta nei suoi pressi e la statua di una Madonna realizzata da scalpellini a Pietrasanta (ove si fanno lavori in serie), posta alla sommità di una colonna. Il tutto dà l’impressione di un monumentino da oratorio. Siamo certamente lontani dal gusto della S. Agata che schiaccia l’idra della peste, sita a piazza dei Martiri.
Non è certo il caso di procedere oltre. Più che al mal fatto, i nostri timori sono rivolti a quanto di quel poco resta nella città antica e che si mira certamente a distruggere. Si sta infatti procedendo a deturpare una serie di simpatici villini in stile Liberty, che sorgono lungo il viale Regina Margherita ed il viale Mario Rapisardi. In vìa Etnea si sono autorizzate demolizioni come quella del palazzo Spitalieri, anni orsono, per far posto ad edifici di gusto dubbio come la «Rinascente». Non parlando poi del Giardino Bellini, una volta pregio e vanto della città per la sua estensione e bellezza, che a forza di ridurlo e frazionarlo, per motivi urbanistici, nello spazio di mezzo secolo, se declassato al ruolo di modesto giardino pubblico di provincia. Persino gli alberi dei viali, soggetti a potature stagionali, una volta tagliati da personale non specializzato, finiscono per ricrescere in maniera disordinata quando non ricrescono per niente.
Malgrado le critiche avanzate, non siamo certo talmente ingenui da lasciarci sfuggire la realtà, perdendoci in polemiche ed aggiungiamo subito che Catania è senza dubbio la città più commerciale del meridione, con una densità di popolazione elevata, che conta 500.000 abitanti. Possiede inoltre una discreta zona industriale che s’estende su una fascia della piana. La sua posizione le consente lo sbocco con tutti i mercati del Mediterraneo. Una città così non può essere priva di iniziative d’un certo interesse; ne fanno fede la mole delle banche, gli scali aero-navali, le agenzie marittime e di trasporti, nonché una fittissima rete di uffici d’affari privati e pubblici.
Naturalmente tale sviluppo ha favorito pure iniziative positive, che sotto il profilo architettonico si traducono in opere come il Palazzo del1’E.S.E., esempio estetico di vero pregio, che sorge nei pressi di largo Paisiello; in complessi turistico-alberghieri come l’Hotel Excelsior di piazza G. Verga e l’altro più recente, Baia Verde, nato come per incanto sulla scogliera di Cannizzaro, in posizione stupenda, in stile mediterraneo con le sue facciate bianche, e che si staglia sul mare azzurro e lo smeraldo della vegetazione. Né vanno escluse opere pubbliche di notevole interesse come il complesso della Cittadella universitaria, che sorge nella zona nord della città, sulla circonvallazione di «Barriera», occupando una vastissima area; veramente degno di nota per la sua razionale architettura ed attrezzatura.
Foto tratta da Catania di Federico de Roberto, Pellicanolibri

Vanno pure ricordati edifici come quello del giornale «La Sicilia» sulla circonvallazione est e la nuova chiesa di S. Euplio opere dell’architetto Raffaele Leone.
Per concludere aggiungiamo che sebbene Catania vanti grandi tradizioni letterarie, potendo annoverare fra i suoi figli illustri uomini come Domenico Tempio, Giovanni Verga, Mario Rapisardi, Federico De Roberto, oggi questa tradizione si è un po' perduta.
Comunque da qualche anno è rinato l’amore per il teatro ed oltre a quello lirico, il «Massimo», ed a quello ufficiale per la prosa, lo «Stabile» ne sono sorti innumerevoli altri come il «Teatro Club» a piazza S. Placido, il «Piccolo Teatro» in via Costanzo, e gruppi sperimentali e d’avanguardia, diciamo senza sede.

In conclusione, noi che scriviamo e che siamo catanesi auguriamo che le cose buone della nostra città non vengano ancor più trascurate e diciamo chiaramente che il motivo principale che ci ha spinto a compiere la nostra fatica era proprio di portare a conoscenza ciò che giorno per giorno abbiamo sotto gli occhi senza accorgercene.