Enzo Grasso: Forza Etna! morte civile per fatto di mafia, Pellicanolibri

Forza Etna! 1985, Pellicanolibri è uno dei tre libri da noi editi: è possibile acquistarlo cliccando sul sito dell'Editore

Dopo aver letto il dispositivo della sentenza di proscioglimento dei cinque imputati accusati di concorso nell'assassinio di un ufficiale, Paolo D’Alesi, apparentemente indifferente al brusio che si era levato nell'aula della corte d’assise, accennò col capo un saluto agli avvocati e corse a rifugiarsi nel suo studio, quasi volesse sottrarsi al pericolo di una violenza.
Dal balcone socchiuso e dal drappeggio in disordine, entravano le ultime luci del sole calava alla marina. I rumori della città riuscivano a penetrare attraverso l’ampio cortile interno, delimitato, da quel lato, da un'ala di uffici dell’edificio; così che il silenzio era quasi assoluto e denso di ostilità e di presagi.
Da qualche giorno, l’Etna lasciava cadere sulla città una lenta e continua pioggia di pulviscolo lavico, stendendo una coltre calda e nerissima e corrompendo l’aria dell’odore di zolfo. Erano lontani i tempi in cui il vulcano quasi centellinava le sue eruzioni, limitandosi a poche rare fumate e a qualche brontolio. Ora anche l’Etna, dopo un inspiegabile disordine nelle stagioni, non cessava di rendersi protagonista, vomitando di mese in mese fiumi di lava che riempivano valli e richiamavano scienziati e turisti da tutte le spiagge.
D’Alesi chiuse le imposte del balcone e poi quasi si abbatté sull’ampia poltrona di cuoio, appoggiando i gomiti sulla scrivania e la testa tra le mani. Ormai era giunto a quell’età in cui la propria vita si legge attraverso il filtro degli entusiasmi sopiti, delle gioie e delle amarezze scontate durante tanti anni di vita pubblica e anche attraverso il peso di non aver dato il necessario spazio agli slanci per la famiglia; né a quelli per i genitori, prima; né a quelli per la moglie, dopo; e forse neppure a quelli per il figlio. Come tanti altri suoi colleghi, presi dal vortice della professione esercitata senza mollezza.
Aveva compiuto cinquantasei anni da e mese, ma già da molto tempo gli si riconoscevano la dignità e il prestigio di vecchio brillante magistrato. Alto, il corpo
asciutto, i capelli mossi, corti e precocemente bianchi, il viso espressivo e normalmente aperto alla giovialità; apparteneva a un casato- interessante, al cui nome era intitolata, sin dai tempi remoti di un sindaco socialista, le più importanti vie cittadine. L’antenato di Paolo era stato tra quei pochi giovani della borghesia intellettuale che durante la settimana santa del 1795, in un impeto disperato e sfortunato, si erano battuti per proclamare la repubblica siciliana indipendente. Diversamente dal proprio antenato, non aveva voluto assumere apertamente alcuna posizione politica, a differenza dei suoi colleghi, lusingati da una qualsiasi occasione di protagonismo; nondimeno la sua intelligenza e per la sua straordinaria acutezza culturale, rappresentava un riferimento importante e conteso dalle varie componenti della magistratura, ma sempre fuori da ogni mischia e sempre schivo a dare nome ai giornali.
«Non mi si può chiedere di cambiare il mondo» aveva risposto ai colleghi che lo sollecitavano a schierarsi, «e peraltro non saprei farlo; ho accettato di amministrare la giustizia e voglia Dio io possa farlo sempre con coscienza». Così non rivelò mai a nessuno, neppure al figlio che lo esortava a manifestarsi, di essere stato favorevole al divorzio e all’aborto, e contro la legge Reale, «perché scelte così importanti» disse, «appartengono all’intelligenza e alla sensibilità dell’uomo».
«Quegli anni...» cominciò a rievocare mentalmente il magistrato; ancora la testa tra le mani, come per impedire che i ricordi gli sfuggissero di mente. «Forse la consunzione delle regole comincia proprio in quegli anni...». Ricordava di averli visti come improvvisamente invasati, alcuni suoi colleghi, e lo stesso suo figlio che s’affacciava alla professione; ma non soltanto qui, anzi... Il marcio, se marcio c’era, era partito da un’idea con natali nelle grandi città settentrionali.
S’era sentito come insidiato nelle sue con­vinzioni, all’annuncio delle prime sentenze
politiche, perché intuiva che una via così ‘fuori regola’ non poteva condurre ad altro che a precipizi sconosciuti. «Una cosa è depotenziare lo Stato attraverso la supplenza e anche questa discutibile», aveva obiettato ad un collega romano, «un’altra cosa vanificare il diritto. No, no, una pratica così aberrante produce quasi sempre sovvertimenti paurosi». Certo, avvertiva anche lui la necessità di qualche cambiamento, di un superamento che modificasse alcuni valori classisti della giurisprudenza; ma l’indipendenza, pensava, un magistrato la conserva soltanto rimanendo fuori da certe dispute di potere politico.
«Volete fare la rivoluzione?» soggiunse incalzando il collega. «E facciamola, dunque! Ma fuori dai palazzi, e senza la protezione della toga, perché per me la legge è legge. A sostegno del collega romano, era intervenuto il consigliere istruttore Mario Lo Bianco, anch’egli nella capitale per partecipare al congresso, conosciuto per la facilità con cui lasciava scattare le manette. «Io mi principalmente di malavita» disse, «e non ho particolari esperienze politiche, ma trovo giusto che il magistrato svolga il proprio ruolo in funzione di contropotere. Ne sanno qualcosa i consiglieri comunali che s’imbattono col mio ufficio, specialmente quelli democristiani...». «Come il giudice di Dante», precisò D’Alesi, «che giudica e manda secondo che avvinghia».
A trarlo fuori da questi ricordi disordinati ed episodici, giunse Nino D’Alesi, il quale, al vedere il padre così immerso in quella stanchezza, rimase sull’uscio dell’ufficio, la mano chiusa sulla maniglia del battente e indeciso.
«Entra, entra pure» l’invitò Paolo alzando la testa di tra le mani.
«Non volevo disturbarti» si giustificò Nino. «Sono stato qui in tribunale con un collega e ho voluto salutarti. Immaginavo di poterti invitare a cena fuori» soggiunse, «stasera mi fermo in città...».
«Certo, certo... Sapessi il piacere che mi fai...» si riprese Paolo, improvvisamente recuperato alla naturale vitalità. «Faccio in un momento» disse, alzandosi e togliendosi la toga che lasciò cadere sul tavolo.
Premio Akesineide, alcuni degli ospiti: Rugarli, Caproni, Luisi

Prefazione di Alberto Bevilacqua
Ma certo, Enzo Grasso ha scritto un buon romanzo: di solida, essenziale testimonianza, specie nella prima parte. Racconto di tenere ombre e luci discrete in contrapposizione al sovraesposto disordine sociale. Paolo D'Alesi, il magistrato, raccoglie qui il suo animo, in un diapason, senza aspettarsi nessun'altra emozione che non sia quella prodotta dal trascorrere, nella piccola cronaca, dei diversi io che ne formano un prisma vitale dalla declinante luce: l’io istituzionale, fungo parassita della sua funzione; l’io sensuale, che scade e si addossa la volgarità femminile (la scena carnale con Anna); l’io colloquiale e amicale, che s’intreccia, nel rito delle consuetudini, con figure di uomini e donne ben dosate nel bassorilievo (alla cui Grasso è attento).
Nel romanzo, corrono dunque una scena ancestrale di statica ammonizione,riassumibile in un personaggio naturale, L’Etna, alle cui falde anche l’autore vive. “Sotto il vulcano”, come Malcom Lowry, nella cui vita- trova coincidenze la narrativa di Grasso, innestandosi su un mondo privato singolarmente inquieto, nel quale si mescolano esperienze sensuali, civili, sofferenze fisiche, sogni irrealizzabili, segreti sensi di colpa e tormentosa volontà d’espiazione. Ma perché quel titolo in fuori e per esclamativo: Forza Etna!? E perché quel sottotitolo che, similmente, sottolinea un aspetto esterno della vicenda che, invece, trova il suo meglio nell’analisi, abbastanza spietata, di un’intimità, di un guscio emozionale? Saremmo tentati di prenderlo, quel titolo, per un esorcismo, se forte non fosse il sospetto di una sua profonda gravità. Ossia, se in quel nome di vulcano invocato, non udissimo un accento apocalittico, quasi si aspettasse, dal sinistro naturale, una morte comune per lava, una cancellazione eruttiva in cui il Grasso-D’Alesi potrebbe dissolvere per sempre la sua stanchezza ad esistere.
Un grido goyesco, dunque? E anche il sottotitolo lo vorremmo correggere, stando al dettato romanzesco, in questo modo: «Morte privata e personalissima per fatto d’emozione». La Sicilia si fa sentire, certo, ma come un profumo, un seme che fruttifica in penombra, armoniosa di interni di case dove si sviscera quel tanto che conferma quanto viscerale ne sia l’intrigo di figure e drammi. La mafia c’entra poco, grazie a Dio. C’entra che la scrittura esiste e che il suo sentimento è una cifra data con una velatura di soprassalti e di pudore. La terra di Grasso, tanto colorata da tanti, trova qui una mano che sa sintonizzarsi sulla tinta del grigio. E penso, ovvio, a certi grigi dei crepuscoli dove l’uomo respira l’ottica compiacente di un a natura misurata dalla sua stessa malinconia.


Più rapidi i fatti reali della fantasia.
Più orrida la verità della più perfida immaginazione del narratore.
Scorrendo le pagine del racconto di Enzo Grasso, scritto fra luglio e agosto di quest’anno, mi turbava trovare immediato riscontro di ciò che in esso si narrava, nelle vagine dei quotidiani, di ciò che c’era in innumerevoli parole e le poche mancanti.
rara immagine di Enzo Grasso
Per una sorta di strano sortilegio, durato poco per fortuna (non ne sarei uscito indenne) l’autore narra quello che non accade di leggere in cronaca. Sortilegio che peraltro in Sicilia è necessario, fonte del vivere, spesso di ricchezza, ancora più scudo contro il dolore e l’orrore.
Con la cadenza del giallo e l’eleganza di una scrittura matura e riflessiva dei grandi autori , a volte con qualche impennata o manomissione (l’argomento è trattato, si badi bene , da un uomo che è sindaco in un paese siciliano), ci si sente raggelare proprio per l’uso ch’egli fa della parola e divenire impotenti davanti a una sorta di gironi d’inferni, dove solo si sa che non esiste scampo.
Il merito principale di Forza Etna! (scritta apparsa in Veneto durante l’eruzione ‘bombardata’ da ingegneri e televisione, che da idea di amore di un popolo e di quanto esso conosca ‘bene’ se stesso) sta proprio qui. Non di delitti facili attribuibili filmabili comodi di cui ormai non si tiene numero, di turpi spargimenti di sangue, ma dell’impossibilità di chi, troppo onesto e forse anche debole, (è nella natura umana!) senza la tracotante voglia di carriera, ma solo quella di vivere la propria vita, i propri amori e malumori, le proprie debolezze ma, soprattutto, di lavorare onestamente (e solo per un errore in tal senso potrebbe diventare colpevole), che viene sconfitto, senza colpo ferire, e con l'impossibilità lui, magistrato, di capire e quindi colpire le iniquità.
Morte civile per fatto di mafia, qui, in Sicilia, ha concesso, concede e continuerà a concedere un numero incalcolabile di vittime (di nessuno parla, se non appunto l’autore) per forza di propulsione può far saltare, essa sì, non l’Etna, l’Isola.
(dal risvolto di copertina)
Beppe Costa

Enzo Grasso è nato a Castiglione di Sicilia, una cittadina tra l’Etna e Taormina. Dove è stato sindaco e ha ideato il Premio Akesineide.
Ha iniziato giovanissimo a scrivere, collaborando con servizi speciali a Ultimissime, Corriere di Sicilia, Gazzetta del Sud e Avvenire.
Ha pubblicato un catalogo storico sulla sua città. Diverse le pubblicazioni.

Con la nostra editrice, oltre Forza Etna! ha pubblicato La stagione della violenza, con prefazione di Dacia Maraini e Non fotografate gli oleandri.