Alberto Moravia, La tempesta, Pellicanolibri

La tempesta è un lungo racconto di Moravia
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La tempesta -prima parte-

Pellicanolibri, 1984
In un tardo pomeriggio di mezzo settembre, il giovane architetto Luca Sebastiani stava fermo davanti all’ingresso di un cinematografo, incerto se entrare o no. Fosse il tempo oltremodo afoso e insieme rannuvolato che, infondendogli un’irrequieta spossatezza, gli impediva di dedicarsi a qualsiasi occupazione; fosse la stanchezza degli ultimi due mesi durante i quali aveva lavorato senza mai interrompersi né concedersi alcuno svago; egli si sentiva in quelle condizioni di nervosismo, di disappetenza e di oppressione, dalle quali, similmente alla tetra nuvolaglia che da più giorni pesava sulla città e soltanto la violenza di un temporale avrebbe potuto dissipare, intuiva che sarebbe stato vano sperare di uscire se non con qualche eccesso o qualche crisi violenta e salutare; e intanto il meglio da fare era non far nulla e cercare di distrarsi in attesa della catastrofe incombente.
E infatti con questo desiderio di distrazione e di oblio aveva quel giorno lasciato le due stanzette soffocate in cui abitava e si era diretto a quel cinema dove sapeva che, oltre al varietà con musiche ed esibizioni di belle ragazze nude, si proiettava un film già notissimo per la città, di una comicità insieme irresistibile e sciocchissima: tutte cose, aveva pensato, che avrebbero forse lenito il suo triste e ingiustificato malessere. Ma ora, giunto sulla soglia del cinema, pur osservando le fotografie esposte nell’atrio nelle quali le figure degli attori fermate a metà delle smorfie e dei gesti non avevano veramente nulla di allegro, una gran ripugnanza lo assaliva di comprare il biglietto, penetrare nella buia e vastissima sala quasi vuota e tuttavia afosa, e, noncurante del luccichio delle miriadi di poltrone deserte, gli occhi fissi sullo schermo immenso popolato di ombre grigie e labili e l’orecchio teso alle grosse e inumane voci burlesche, rompere anche lui di concerto con gli altri spettatori nelle numerose risate inevitabili e obbligatorie. «Sono triste », pensava con una irritazione che sentiva egli stesso ingiusta perché capiva che nessuno lo costringeva ad entrare nel cinema, «sono triste, rabbioso, inquieto... ebbene voglio rimanere triste, rabbioso e inquieto... perché dovrei ridere?... Che necessità ho di ridere?»
Tra questi pensieri, pur continuando a osservare con stizza attraverso le grosse lenti di miope le fotografie esposte nell’atrio deserto, se ne andava pian piano verso l’uscita con l’intenzione di tornarsene a casa o sedersi all’aperto in qualche caffè. Ma così facendo, senza volerlo, andò ad urtare con violenza contro una donna che in quel momento varcava la soglia.
Confuso e irritato, raggiustando sul naso le lenti che nell’urto gli erano andate fuori di posto, pronunziò un secco «scusi tanto» in cui trapelava tutto il suo malumore. Quindi levò gli occhi e allora, senza meraviglia, come se avesse saputo di dovere incontrarla, riconobbe Marta.
archivio: beppe costa, 1951
Non era veramente affatto cambiata, pensò osservandola in quell’attimo che passò tra il riconoscerla ed il salutarla. Stesso viso magro e intensamente pallido dall’alta fronte sporgente sugli azzurri occhi infossati, dal naso brusco, dalle grosse labbra sinuose sotto le quali il mento marcato di una fossetta si ripiegava profondamente e quasi spariva. Sola differenza, i neri capelli un tempo lunghi e divisi in due bande, ora cortissimi, come quelli di un uomo, in modo che le orecchie apparivano intere e il viso sfrondato pareva più smunto e più bianco intorno gli occhi profondi e la macchia rossa delle labbra. Ella aveva il corpo grande e un po’ ossuto avvolto in un impermeabile rosso dai riflessi cangianti, sotto l’orlo del quale spuntavano due stivaloni di incerato nero, tersi e luccicanti, che le davano un curioso aspetto tra l’amazzone appena smontata da cavallo e l’artista di varietà che si esibisca in un numero di danza russa. Anch’essa l’aveva riconosciuto, e, il viso pieno di lieto stupore, si avanzava verso di lui. «Ma Luca, che bella combinazione», esclamava; e dopo il viso e la persona, il giovane riconobbe anche la voce, calda, esitante, profonda, «tu... dopo tanto tempo!».
Ma Luca aveva la memoria tenace, soprattutto per i torti che gli erano stati fatti. Nel momento stesso in cui la voce gli richiamava alla memoria le care immagini del tempo passato, gli era tornato il ricordo dell’acerba delusione che a quelle immagini era indissolubilmente legata. E, tutto a un tratto, aggravato dal malumore e dall’insofferenza dell’afosa giornata, si era ridestato nel suo animo il rancore contro la donna la quale, due anni prima, dopo essergli stata fidanzata, l’aveva abbandonato per diventare l’amante stipendiata di un uomo ricco e maturo che non amava. «Sì, io», disse scuro e sdegnoso, ricominciando, nella sua confusione, a riassestare gli occhiali che erano ormai a posto, «chi l’avrebbe detto eh?... Che bella combinazione».
Marta non si accorse o finse di non accorgersi del tono corrucciato del giovane. «Non puoi immaginarti il piacere che mi fa di rivederti...», continuò con un sorriso goffo che come due anni prima pareva incapace di gioia e curiosamente contrastava con la leggiadra fossetta che le metteva in ambedue le guance. «Veramente Luca non puoi immaginartelo...! »
Egli la guardò con freddezza. «Un piacere, probabilmente, altrettanto grande che il dispiacere che fa a me incontrarla», rispose; «allora, tanto lieto di averla veduta sempre bella, allegra e in buona salute e arrivederci...»; e, seppure a malincuore, fece per avviarsi verso la porta. Ella non si mosse ma lo guardò battendo le rade, lunghe ciglia sopra gli occhi infossati, un gesto che in lei aveva sempre significato la mortificazione e il dolore. «Ma Luca...», proferì. «Ebbene cosa c’è?» domandò il giovane aspramente fermandosi e guardandola.
«Ma Luca», ella ripeté e quel battito patetico e avvilito delle palpebre faceva pensare che presto dovessero sgorgarne delle lagrime. «Ma Luca... perché mi tratti così male? Era tanto tempo che non ci vedevamo... e poi perché mi dai del lei?...».
Meglio del viso e della persona, quella voce di preghiera, tanto sinceramente contrita e umile, ridestava nell’animo di Luca, più forte del rancore, l’antica passione che credeva morta per sempre. Tuttavia nascondendo come poteva questa sua commozione: «Ti do del lei», disse, «perché non ho alcuna ragione di darti del tu... tra noi tutto è finito, credevo che almeno su questo si fosse d’accordo... del resto, tu o lei, poco importa, diamoci pure del tu se questo può farti piacere».
Più che mai la donna batteva le ciglia lunghe e raggianti. Poi giungendo le mani e avvicinandosi a lui: «Luca non parlarmi così», tornò a supplicare, «se tu sapessi che male mi fanno le tue parole!... E proprio oggi!»
S’erano un poco spostati verso un angolo dell’atrio dove si trovava un distributore automatico di sigarette. «E il male che hai fatto a me due anni fa», egli non poté fare a meno di rispondere con ira. «Quel male lì dove lo metti?»
Come chi tema di impazzire, ella si strinse forte, per un momento, la fronte, con la mano che aveva bianca, magra e lunga. «Luca», disse poi levando gli occhi mortificati verso il giovane, «nessuno, te lo giuro, è mai stato così pentito di una cattiva azione come sono adesso io di averti trattato in quel modo... e nessuno ha mai scontato un errore più duramente di quello che l’abbia scontato io... ma ora non respingermi, te ne prego... perché se anche tu mi respingi, tu che sei la sola persona al mondo che mi conosca e possa aiutarmi, allora veramente temo di impazzire...».
Festa a Sezze in onore di Moravia, 1989

Era veramente compassionevole, con le spalle un po’ curve, le mani giunte e quel battito miserabile delle rade ciglia splendenti sopra gli occhi umiliati. E Luca, che un istante prima aveva deciso di non lasciarsi vincere da nessuna preghiera o civetteria, al tempo stesso impietosito e incuriosito da quegli accenni misteriosi della donna ad una sua ignota sventura, non poté fare a meno di parlarle con intonazione meno evasiva e sdegnosa. «Sarà, ma non ti capisco», disse guardandola; e c’era nei suoi occhi l’indecisione di chi esita tra due sentimenti opposti. «Che c’entro io con le tue cose?... Va bene, ti conosco, e questo è vero fino a un certo punto perché se ti avessi conosciuta davvero non sarebbe accaduto ciò che è accaduto... Ma perché dovrei respingerti o non respingerti?... Cos’è questa storia?» «Se tu sapessi quel che mi è successo», ella mormorò; e non poté fare a meno di girare gli occhi per l’atrio del cinema. Luca colse a volo questo sguardo. «Qualcosa di molto terribile non ti sarà successo di certo», disse con risentimento, «visto che ti ho incontrata nel momento in cui tutta vispa e contenta te ne andavi al cinema...».
Ella lo guardò un momento con uno stupore mescolato di rattristato rimprovero. «È proprio perché non so che cosa fare», rispose; e nella sua agitazione si torse le mani contro il petto, «è proprio perché non so dove andare a battere con la testa che sono entrata in questo cinema... mi pareva che un film comico mi avrebbe fatto dimenticare almeno per due ore tante cose a cui non voglio pensare...».
Ella aveva sempre avuto il gusto degli atteggiamenti e delle situazioni tragiche, pensò Luca osservandola, ma questa volta l’accento e i gesti parevano sinceri. D’altra parte, ricordò come egli stesso si fosse recato al cinema con lo stesso stato d’animo; e anche questo pensiero valse a mitigare il suo rancore. «Ma intanto cosa fai?» domandò bruscamente. «Entra, oppure esci, ma deciditi... non possiamo mica restare indefinitamente qui, nell’atrio di questo cinema». La donna lo guardò, si guardò intorno. «Hai ragione», proferì febbrilmente e come fuori di sé. «Ma dove andare? Avevo pensato al cinema perché c’è tanto buio e non si vede nessuno... non ho voglia di veder gente... la sola vista delle facce degli estranei mi irrita... dove andare?» «A casa mia...», incominciò malvolentieri Luca.
«No», rispose subito Marta, «no a casa tua no... qualsiasi luogo piuttosto che a casa tua...».
«Allora», propose Luca, «a casa tua?»
Perplessa, ella lo considerò: «A casa mia?»
«Sì a casa tua; ma», egli la guardò fissamente e con intenzione «ma a patto che io non corra il rischio di incontrarci certe persone».
«No, no, questo rischio non lo correrai, di certo non lo correrai»; e per la prima volta, in una maniera fiacca e sarcastica, incomprensibilmente allusiva, Marta rise. «Dunque tu dici di andare a casa mia?... Aspetta che ci pensi un poco... a casa mia? E dopo tutto, perché no?, andiamo a casa mia»; senza transizione, con la furia ispirata della persona che sappia appena quello che fa, ella si diresse verso la porta del cinema.]

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