1997, pag. 100, € 12.000 |
Riporto due brevi stralci dal libro, edito da Pellicanolibri, di Luce d'Eramo: Raskolnikov e il marxismo - note a un libro di Moravia. Chi volesse acquistare il testo, ancora disponibile, può farlo ordinandolo sul sito dell'editore o scrivendo a: pellicanolibri@libero.it
“Un mese in Russia ” di Alberto
Moravia
Invece
sono rari i lavori sulla Russia Sovietica che rispondano realmente agli
interrogativi dei lettori.
I
termini nei quali gli scrittori risolvono solitamente il loro esame d'una forza
politica sono o psicologici o estetici o morali.
È
ovvio che l’uomo non entra in contatto con la realtà unilateralmente, perché
gli stimoli alla relazione sono di vario ordine variamente combinato, ma c’è
sempre una prospettiva determinante che dà unità di giudizio alle molteplici
sensazioni, impressioni e riflessioni.
Ogni
forza politica esercita un’attrazione sull'individuo che tende ad aderirvi per
sentirsi potenziato dalla partecipazione ad essa, oppure a condannarla in blocco per non essere diminuito dalla
consapevolezza della sua esistenza, o infine a schernirla e coprirla di
ridicolo per minimizzarne il significato e giustificare la propria assenza
d'impegno. Questi che sono, schematizzati, i possibili rapporti dell’uomo con
una forza politica, in sostanza si esprimono in illusioni e delusioni.
Rappresentativo di questo momento dello spirito riferito all'URSS è il saggio
di André Gide Retour de Russie che ha un interesse eminentemente psicologico,
in quanto gli aspetti estetici e morali del rapporto sono assorbiti dalla
prospettiva personalistica nella quale sola è possibile la delusione.
Possiamo
invece citare come esemplare del momento estetico dello spirito, sempre in
riferimento alla Russia, l’opera di Carlo Levi dal titolo geniale II futuro
ha un cuore antico, piena di acute e commosse notazioni sul popolo
sovietico «glorioso di sé». Nella prospettiva estetica le rivoluzioni e
gli ordinamenti politici appaiono come rappresentazioni angosciose o esaltanti
date dagli uomini sul palcoscenico della storia e alle quali il pensatore
assiste, dal belvedere della sua solitudine spirituale, con equanime
struggimento e simpatia umana.
I lavori così impostati non rispondono realmente agli
interrogativi dei lettori sulla Russia Sovietica, perché, per quanto la prassi
politica sia indipendente dai valori morali, in effetti poi non si può
giudicare della “bontà” o meno di un governo o di un’ideologia prescindendo da
essi. Ma la spiritualità moderna non è educata a dare al concetto di moralità
il suo significato determinante, cioè concreto, perché l’angolo visuale del
nostro tempo (la prospettiva che dà unità di giudizio alle molteplici
sensazioni, impressioni e riflessioni) non è quello morale della coscienza,
bensì quello intellettuale che conduce all'astrazione.
Infatti il Novecento è un tempo di grande audacia e
duttilità intellettuale, di sottili
ricerche in ogni piega dell’esperienza, d'indiscrete rivelazioni, l'era delle più potenti scoperte
scientifiche e contemporaneamente è l’epoca della rivendicazione del
subcosciente da un lato e, dall’altro, quella delle formule programmatiche, dei blocchi economici, dei partiti politici e
dell’organizzazione. E questo è molto interessante perché tutte le volte che
l’uomo ha voluto scavalcare la coscienza,
si è ritrovato nella dissociazione e nella contraddizione
(quando, ad esempio, ha preteso che il giudizio umano, anziché espressione libera della coscienza,
fosse sottomesso al sentimento della fede, è giunto all'assurdo dell’inquisizione che costringeva a credere), ed è caduto nel dogmatismo
(religioso, quando ha voluto definire il bene e il male attraverso speculazioni
metafisiche; politico, quando ha voluto
determinarli attraverso
indagini materiali, ossia quando li ha collocati nei fatti).
Dostoievski scrisse, nel Diario di uno scrittore (
1876), che, per andare avanti, occorre
cominciare dall’inizio;
un uomo non può cominciare a camminare «dal decimo passo», solo perché
un altro ne ha già percorsi nove prima di lui.
Questa proposizione
di Dostoievski, apparentemente modesta, nega che si possano affrontare i problemi della
vita progressivamente, affidando la
sintesi del giudizio all'intelletto. Dal la prepotenza della
facoltà intellettiva che, invece di servire la coscienza con la sua analisi, vuole essa stessa
concludere e determinare la realtà,
nascono le concezioni
intellettualistiche della vita con ambizioni pratiche, categoriche,
organizzative. La morale, cacciata dalla coscienza, rientra attraverso
l’ideologia, donde il moralismo intellettuale del nostro tempo, con
conseguenti intransigenze partitiche, faziosità teoriche
e concettuali, intolleranza formale e cosi via.
Il moralismo intellettuale del Novecento ha la sua
giustificazione psicologica nella necessità, da parte della creatura umana, di
un assoluto cui potersi attenere con certezza: dopo aver decantato e smontato i valori tradizionali, l’uomo moderno deve
crearsene di nuovi e, partendo dal “decimo passo”, si affanna a gridare al
deviazionismo o alla reazione qualora qualcuno ritenga di poter riesaminare con
la sua testa, dal principio, i problemi umani.
Al conformismo religioso
e ai pregiudizi morali sono subentrati il conformismo politico
e i pregiudizi intellettuali, che provengono sempre dalla
medesima tendenza dell’uomo a proiettare fuori di sé e a fissare in forme definitive i valori
del bene e della verità. Questi pregiudizi intellettuali sono ben più
sconcertanti degli altri perché vengono
rafforzati con
un’armatura logica proprio dall'intelletto che è sempre servito a scalzare i
preconcetti.
In quest’atmosfera spirituale, porsi in relazione morale
con una realtà politica è impresa particolarmente difficile.
Un posto a parte, nella
letteratura occidentale sull'URSS, per il suo carattere speculativo, spetta al
saggio Cristianesimo e Comunismo di Ugo
Spinto.
In esso l’autore dimostra l’affinità del
comunismo orientale (ben distinto da quello occidentale, che egli definisce borghese) col
cristianesimo.
Affinità non solo ideale - il
comunismo come traduzione in termini moderni della predicazione di Cristo a favore
degli oppressi
-, non solo storica - la funzione rivoluzionaria del comunismo nel mondo
attuale, corrispondente a quella che ebbe il cristianesimo ai suoi tempi, in
contrapposizione dialettica col conservatorismo nel quale la Chiesa cattolica si è fatalmente
arroccata attraverso un bimillennio di storia -, ma anche formale: «In
realtà» egli scrive «il comunismo può acquistare, ed ha acquistato
specialmente in Oriente, il valore di una fede religiosa. Il che significa che
riesce ad illuminarsi di una luce metafisica, capace di indurre al sacrificio
del contingente».
Spirito nega la validità dell’accusa di materialismo
al marxismo: secondo lui, Marx è veramente, senza saperlo, antioeconomicus,
poiché l’economia è la scienza della proprietà; ma è stato danneggiato dalla
consuetudine con la terminologia positivistica che gli ha fatto prendere il
granchio di definire materialistico il proprio pensiero, quando invece combatte
la materia.
(Qui vorrei soltanto dire che in generale oggi la
parola “materialismo” non è vista di buon occhio. Camus scrive ne L'homme
révolté che è «una nozione ambigua. Soltanto per formare questa parola,
si deve già dire che nel mondo c’e qualcosa di più della materia»).
Il materialismo mira a un risultato materiale
(benessere economico per tutti) come ad un fine etico da conseguirsi mediante
un calcolo intellettuale, cioè tecnicamente (dal di fuori) e non moralmente
(dal di dentro). In questa rivolta dell'intelletto alla coscienza sta il
significato metafisico che Spirito chiama «il sacrificio per l’ideale» e
di cui parla Camus quando scrive che «la rivoluzione, anche e soprattutto
quella che pretende di essere materialista, non è che una crociata metafisica
smisurata».
Vorrei aggiungere che con lo stesso procedimento,
rovesciati i termini, il moralismo mira al bene come a un postulato cui
conformarsi, e ripete, cioè rispetto alla morale viva che è coscienza della
realtà, dei valori concreti determinantisi di volta in volta, lo stesso
processo astrattivo deformante del materialismo sulla materia.
Perciò materialismo e moralismo, che presumono di
possedere la verità oggettiva per mezzo dell’intelletto in anticipo sulla
realtà, sono parenti e s’accompagnano volentieri insieme.
Spirito invece ritiene che il «sì» morale
debba essere l’abito del «ma» intellettuale, per cui cerca a tutti i costi
la moralità del più suggestivo «ma» storico del nostro tempo, cioè della
rivoluzione sovietica, e a questo fine dialettizza e storicizza il significato
autentico perciò irripetibile del cristianesimo, per investirne un fenomeno
altrimenti comunitario quale il comunismo.
L'opera di Alberto Moravia Un mese in URSS è
forse quella che più si avvicina a una prospettiva morale, nel senso che invita
alla discussione. Esula dal carattere dei resoconti di viaggio che presentano
una realtà sconosciuta, ma è costruita sul terreno familiare e comune a tutti
della cultura.
Qualche anno fa, a chi gli chiedeva perché non
avesse mai scritto nulla sui suoi numerosi viaggi, Moravia rispose di non
credere nella «bontà della prima impressione», perché la prima
impressione è piatta, fallace, non ha sfondo, è improvvisazione, e spiegò che
la sua «topografìa narrativa» era così circoscritta perché egli non
poteva scrivere se non di luoghi con i quali avesse «confidenza». È
appunto la lunga dimestichezza culturale dell’autore con la realtà russa a dare
profondità alle singole impressioni.
Un mese in URSS, pur essendo una raccolta di
articoli e corrispondenze, ha la misura delle opere meditate che presentano i
pensieri nella loro essenzialità, attraverso il sacrificio severo dell’infinita
serie di sfumature e variazioni che li accompagnano durante la loro formazione.
La stessa stizza moraviana, che costituisce l’umore
dello stile dello scrittore, trova in questo libro la sua atmosfera ideale. La
conoscenza di un popolo che, lungamente attesa, covata e preparata, si compie
poi sotto forma di una diligente visita ufficiale, offre il miglior destro alla
contrarietà. Ma è una contrarietà docile che raccorda nella maniera più
spontanea le impressioni fuggevoli con le loro risonanze nel pensiero.
La solita stizza di Moravia verso il benpensare,
l’ipocrisia eccetera, che altrove si acuisce in crudezze descrittive, qui si
stempera in un dispetto affettuosamente imbronciato di fronte ai contrattempi,
al maltempo, all'ambiente insolito, insomma di fronte all'inevitabile disagio
spirituale di ogni esperienza nuova.
Ora egli sembra preoccuparsi che i russi non si
prendano un raffreddore girando a capo scoperto sotto la pioggia, e così
placidamente per giunta; altrove pare avercela con i soprammobili della sua
scrivania d’albergo; nel colcos usbeco ci sembra di vederlo fare
impercettibilmente spallucce verso i suoi ospiti che assaggiano appena il pane
e il miele disposti sulla mensa, mentre lui, affamato com'è dopo il lungo giro
di visita nei campi, ne mangia a sazietà, per poi scoprire
che quel pane e miele era soltanto l’antipasto di un lauto banchetto, le cui
portate egli vedrà sfilarsi innanzi con rammarico, senza poterle toccare (ma
subito si riprende dichiarando al lettore che però il miele era veramente buono!).
Dietro queste
impennate istantanee, Moravia sembra non darsi pace per i caduti in nome
dell’ordine nuovo, per i milioni di creature sacrificate; e il tormento per i
deboli, i perseguitati, i soppressi, i dimenticati, è la trama continua su cui
s’intessono i problemi che gli si presentano di volta in volta e che egli
sembra addossarsi, uno sull'altro, sulle spalle, man mano che procede nella
rievocazione.
Quella che
potrei chiamare la sua abituale “irritazione per amore del prossimo”
(quell'amare gli uomini “suo malgrado” che ricorda certi eroi di Dostoievski),
ha, nella visita a un mondo che evita di volgersi indietro, una più evidente
giustificazione psicologica ed estetica.
Finora nella sua
produzione Moravia ha denunciato l’aridità e il disorientamento del Novecento.
Nella sua opera
di scrittore traspare il tentativo di risolvere artisticamente l’irriducibile
contrasto tra intellettualismo e moralità, contrasto che la sua arte invece non
risolve, ma accentua, e che si fa più tragico che mai, man mano che, di opera
in opera, si evolve il suo senso umano, dalla disistima, mista di pena,
puntiglio, amarezza e sfida (anche verso il lettore) alla struggente,
insopprimibile esigenza di rispettare l’uomo; dall'isolamento della solitudine
a un sentimento di legame con gli altri; dall'acre curiosità delle miserie
umane alla trepidazione per la sofferenza; dalla critica alla confidenza; dal
risentito pudore dei sentimenti a un nuovo imbarazzato, ancora scontroso,
pudore del male.
Veramente per un
artista è fatica da poco ormai superare i pregiudizi sociali e di costume e
osservare con occhio distaccato e libero l’ambiente da rappresentare.
Ma è immane
fatica e lotta vincere i pregiudizi intellettuali, cioè emanciparsi da
un’educazione culturale dove l’intelligenza, la finezza, l’arguzia e l’ironia
hanno la parvenza della libertà spirituale
e dell’impegno morale.
Segni di questo
sforzo di liberazione sono evidenti in Un mese
in URSS. Moravia vi esamina i problemi della società sovietica non secondo
il metro marxista (che parte “dal decimo passo”), bensì secondo la sua
coscienza; ma non vuole ammetterlo neppure con se stesso e cerca di soffocare
l’angoscia del suo spirito, di fronte ai risultati del calcolo materialista,
con tentativi estremi di salvataggio dei postulati marxisti mediante un
contrattacco critico all'Ottocento “borghese”.
Ma Un mese
in URSS è importante non solo nella storia artistica dell’autore, ma
anche nella fioritura internazionale di opere sulla Russia, perché tratta
argomenti che chiunque non sia stato in Russia può egualmente meditare e
discutere.
PREMESSA
Il breve saggio Raskolnikov
e il marxismo - note a un libro di Moravia, scritto nel
1958, era stato pubblicato in poche centinaia d'esemplari, l'anno successivo,
dalle Edizioni Esse di Milano, una piccola casa editrice senza mezzi né
distribuzione, che ebbe una brevissima esistenza. Quindi fu una pubblicazione
quasi clandestina. Mostrai il libro a Moravia. Ricordo che ne discutemmo ma,
siccome eravamo spesso in disaccordo, non so più bene quali furono le sue
obiezioni. Comunque quelle mie note al suo Un mese
in U.R.S.S. lo interessarono, ne parlò ad amici. Con piacere notai un giorno
il mio libro nel suo studio.
Dopo la morte di
Moravia, non so perché m'è venuto di dare quel mio vecchio testo a Rosella
Mancini che lo ha consegnato alla Fondazione Moravia. Una fotocopia, per una
serie di passaggi, è giunta l'estate scorsa a Beppe Costa. Lui, che ha ripreso
a volte opere introvabili di scrittori come Dario Bellezza nella sua Pellicanolibri
dal complesso catalogo, m'ha telefonato che il mio testo gli pareva attuale:
«Lo vogliamo riproporre?» m'ha chiesto. Ho detto di sì. Poi sono cominciate le
ansie (vedi, più avanti, la prefazione a questa riedizione).
Ho frugato tra
le mie carte alla ricerca delle mie letture degli altri libri di Moravia. Gli
avevo scritto delle lettere su La Ciociara , sui Racconti
romani, anche sul suo dramma Beatrice
Cenci di cui mi pareva d'aver conservato gli appunti. Invece ho
ritrovato un'intervista del 1967 (apparsa soltanto nel luglio 1994 sulla rivista
semestrale “Pelagos”) e una lunga recensione a La vita
interiore pubblicata in due puntate il 10 e il 17 novembre 1979 su “II
manifesto”. Stavo allora a Parigi. Moravia mi telefonò. Era contento. Accennò
all'evoluzione e insieme alla continuità delle mie analisi sulle sue opere da
quel remoto Raskolnikov a questa mia
ultima critica. Ero commossa nel ricevitore a sentire le sue parole di condivisione (col suo tono
sempre un po' irritato).
Perciò ho chiesto a Beppe
Costa d'inserire sia l'intervista che la recensione nel volume. Lui, che era
molto amico di Moravia - gli aveva pubblicato il breve romanzo La tempesta -
ha detto di sì. Così è nato questo volumetto in due parti.
Luce d'Eramo