Luigi Pareti, I due imperi
di Roma è un libro edito già dalle edizioni Muglia di Catania e ristampato anastaticamente nel 1988 da Pellicanolibri. Copie ancora disponibili, anche se rare, possono essere richiesta ordinandole sul sito dell'Editore
Pubblichiamo il primo capitolo
UNIFICAZIONE
D’ITALIA COLLE AQUILE DI ROMA
I
La storia
d’Italia, veduta nel suo insieme, è tutta un’antitesi di tendenze
regionalistiche, e unitarie; che per due volte riuscirono a congegnarsi in
sintesi armonica: nell'età dei primi Cesari, e in questi ultimi decenni.
Di tale
regionalismo, noi vediamo, coi nostri occhi, le recenti manifestazioni; ma
possiamo storicamente, ricostruire anche le fasi del passato, le une non
dannose alla vita unitaria nazionale, ed anzi spesso fertili di una ricca gamma
di prodotti: nei dialetti, nell'aspetto somatico, nelle caratteristiche
spirituali, nei costumi e nelle tradizioni popolari, nell'orientamento della
vita e delle produzioni di ogni terra; — le altre più dannose e inceppanti la
vita nazionale, quali le rivalità e i campanilismi, le incomprensioni
vicendevoli, e le antipatie regionali.
Ma le cause di
tali regionalismi sono remote e complesse; e di esse le più efficienti furono,
nei secoli, quella geografica, quella etnica, e quella storica, dei contingenti
rapporti politici e culturali, fra le varie regioni, nel passato. Le due prime
diedero, in genere, origine a quelle forme regionalistiche, che possiamo
chiamare «naturali» ; le quali, più profonde e salde, e meno facilmente
modificabili, sono però anche meno dannose al movimento unitario, e anzi spesso
utili per la ricchezza e la molteplicità delle manifestazioni della vita
nazionale.
Invece il
regionalismo che deriva da cause storiche, ossia dai peculiari sviluppi delle
contingenze politiche, e delle lotte del passato, se, qualche volta, è più
facilmente domabile, si presenta quasi sempre come inceppatore del libero
sviluppo della vita nazionale.
II.
La regione
italiana, in parte continentale, con una spaziosa piana, cinta da una grandiosa
cornice di monti ; in parte peninsulare, ma divisa per il lungo in due zone,
disuguali, dalla catena appenninica; in parte ancora costituita da terre
staccate, insulari; colla notevole diversità dei climi, dei redditi naturali, e
dell’abitabilità nelle varie regioni; colla disuguale distribuzione delle terre
pianeggianti, collinose e montane, delle selve e delle acque, delle ricchezze
agricole e minerarie; col complesso orientamento delle sue coste verso l’est, e
il sud e l’ovest; colla varia difesa offerta dalle singole parti del sistema
alpino — ebbe, in tutta questa sua profonda e multipla mutevolezza geografica
naturale, la prima delle cause basilari per il regionalismo delle sue genti.
Eppure, il
nostro paese, anche a primo aspetto, si presenta, nel suo insieme, come
un’evidente unità geografica, delimitata perfettamente dal sistema alpino c dal
mare; e quindi doveva, al tempo stesso, trovare in tale evidente caratteristica,
una delle cause fondamentali per l’unificazione nazionale degli abitanti.
E così ci
spieghiamo, come già parecchi degli antichi popoli migratori, che vi giunsero,
nelle prime età, dai mari, o attraverso i monti, e vi si fissarono, nelle
diverse zone, o vi si sovrapposero, assai presto dimostrassero una qualche tendenza
all'unificazione; che appare evidente nel campo culturale avanti che in quelli
politico ed etnico, per quanto anche di questi si riescano a intravvedere
alcuni precoci stadi.
Chi si sforzi
di ricostruire idealmente le frammentarie condizioni etniche dell’Italia,
avanti la conquista romana, si trova inanzi un quadro molto complesso. Ecco, in
varie parti d’Italia, i resti etnici delle prime genti, non ariane, che vi si
stanziarono, nell'età della pietra pura: Liguri, Euganei, Etruschi, Piceni,
Elimi, Sardi, Corsi. E poi ecco, intercalate, e talora sovrapposte ad essi le
genti ariane, e quelle semitiche, che vi giunsero appresso, dall’età del rame
(o eneolitica), in poi. Degli Ariani, sono distinguibili: in primo luogo gli
Italici, sia quelli di una prima ondata, risalente al 2500 circa av. Cr., quali
i Latini e i Siculi-Sicani (erano dello stesso tipo gli Ausoni- Aurunci, e gli
Itali-Enotri); sia quelli di una seconda ondata, databile al 1000 circa,
originante le genti tosche ed umbre, di cui sono ulteriori propaggini, scese
più al Sud, mezzo millennio dopo, i Campani, i Sanniti, i Lucani, i Bruzzi, e i
Mamertini.
Ma altri
Ariani vennero, oltre agli Italici, nelle nostre terre: circa il 1000, gli
Illiri, specie nel Veneto e in Puglia (dove si dissero Iapigi); dall’800 circa
in poi, i Greci, nelle colonie dell’Italia meridionale, della Sicilia, e del
golfo Ligure; dal 550 circa i Celti nella piana del Po.
Si aggiungano
infine i più antichi Semiti venuti tra di noi: ossia i Fenici delle colonie
cartaginesi di Sicilia, di Sardegna, e di altre isole minori.
Ma se la carta
etnica dell’ Italia, al momento della conquista romana, ci si presenta così
complicata; è tuttavia certo che, avanti quella conquista, l’Italia aveva già
subito qualche livellamento, sia pure remoto e parziale, così etnico, come
politico.
Così va tenuto
presente: che in uno dei periodi dell’età litica pura pressoché tutte le nostre
terre dovettero essere abitate dai Liguri e da genti affini; — che, in seguito,
le genti italiche colla loro triplice migrazione si distesero dalle Alpi
orientali alla Sicilia centrale; — che gli Etruschi ebbero anch’essi due fasi
di ampia diffusione, una prima preistorica, dalle Alpi centrali alla Toscana
(coi Palafitticoli, Terramaricoli e Villanoviani); ed una seconda, nei secoli
VII e VI av. Cr., dalle Alpi centrali al Golfo di Salerno. Non altrimenti i
Greci occuparono quasi tutte le coste dell’Italia meridionale da Taranto a
Cuma, e quelle della Sicilia orientale da Imera a Selinunte ; gran parte delle
coste adriatiche dall'Istria alle Puglie furono occupate da genti illiriche;
e i Celti si stesero, nell'Alta Italia, dalle Alpi Cozie alle Marche. Ma,
soprattutto va ricordato che i quattro elementi più ampiamente distesi: gli
Italici, gli Illiri, i Greci e i Celti, appartenevano tutti allo stesso ceppo
etnico, ariano.
È più facile
intuire che delineare quanto i vari popoli, che si affiancarono e sovrapposero,
abbiano contribuito alla formazione e fissazione delle caratteristiche generali
psichiche, culturali e linguistiche degli abitanti d’Italia, nel periodo
preclassico e classico; al nascere di una peculiare nazione italiana; e al
differenziamento delle genti entrate solo parzialmente nella penisola, come gli
Illiri, i Greci, i Celti i Fenici, dalle loro sezioni rimaste fuori.
Ad ogni modo,
quel sovrapporsi e fondersi di genti distinte, in un paese, ad un tempo unito e
diviso, portò ad uno stato di cose, al momento della conquista romana, che
potrebbe parere paradossale perché vi erano evidenti, così la tendenza — nel
tipo somatico, psichico, linguistico, culturale, religioso, folkloristico — ad
una fusione e affinità complessiva; me quella ad una variopinta disformità
regionale.
III.
Prima
dell’unificazione politica operata da Roma, le condizioni delle terre italiane
non furono, naturalmente, dovunque e sempre uniformi. Così, mentre molte delle
genti della penisola, specie di montagna, vissero fino alla piena età classica
divise in tribù, o in piccoli staterelli cittadini indipendenti, con un po’ di
territorio rurale, in continua lotta interna tra di loro, e al più riuniti in
federazioni sacrali e commerciali, che solo per eccezione e per breve tempo
(specie nella zona greca, in quella etrusca, e nel Lazio) si trasformarono per
qualche pericolo comune in leghe politiche; nelle zone più civili, e aperte
agli influssi esterni, si erano già attuati tentativi abbastanza vasti di
unificazione politica ed egemonica. Ciò si dica per le zone dipendenti, in
Sicilia e in Sardegna, da Cartagine, che le aveva organizzate come vere
«eparchie», o provincie; per le espansioni
di alcune città egemoniche etrusche, nel VI e V sec., come Tarquinia e Volsini,
Clusium e Faesulae ; ma più che tutto per gli ampi Stati creati dai tiranni
Sicelioti di Siracusa (i Dinomenidi, i Dionisi, Agatocle) e di Agrigento; e per
le minori egemonie di Taranto, di Sibari, di Crotone, di Reggio, di Cuma.
Infine, in
epoca di poco precedente le conquiste di Roma nel mezzodì d’Italia, una serie
di principi e di avventurieri, Corinzi, Spartani, Epiroti, fino a Pirro, vi
avevano tentato, invano, di realizzare un’unità più vasta, prendendo a modello
quella che Filippo e Alessandro avevano ottenuta in Oriente.
Ma nessuno di
questi tentativi — che Roma certo non ignorò, come non ignorò i sistemi
cartaginesi — raggiunse mai risultati duraturi. Si trattò sempre di egemonie
effimere; e ciò specialmente perché i vincitori si preoccuparono sempre più
della loro immediata potenza, che di stringere vincoli di fiducia, di fedeltà e
di collaborazione, coi vinti.
Perché Roma riuscì,
dopo tanti fallimenti dei suoi precursori, a unificare l’Italia, ch’era pure
spezzettata assai più profondamente della Grecia, i cui abitanti, in fondo, non
erano che di un’unica stirpe etnica?
I fattori di
questa grande, e quasi miracolosa vittoria, sono naturalmente molteplici, e di
varia importanza.
Intanto si
noti che il Lazio è posto al centro, e nella zona di clima medio di tutta la
regione italiana; e che i Latini erano etnicamente, e culturalmente la sintesi
dei tre primi strati etnici omogenei, che occuparono la penisola. Infatti il
Lazio, prima occupato dai Liguri, ospitò poi gli Italici della prima ondata e
alcune propaggini di quelli della seconda ; e infine subì, per circa 150 anni,
il dominio di varie schiere di conquistatori etruschi. Quindi la gente latina
era la sintesi di precari tipicamente italiani, e di Ariani esclusivamente
italici.
Al che
risponde, fin da principio, anche la caratteristica della civiltà romana che si
presenta sempre, dalle origini, come sintesi, alla romana, di quanto le genti
d’Italia, a contatto con lei, offrivano così d’indigeno come d’importato. Posta
in mezzo a tanti popoli in fermento evolutivo ; su di un grande fiume navigabile
; sulla via fra le civilissime terre di Etruria e di Campania; Roma iniziò ben presto
la sua tipica missione di assimilare, rinnovellare romanamente, e diffondere la
nuova civiltà romano-italica alle genti più arretrate. Processo che si può
seguire in tutte le attività della vita: nella lingua e negli usi, nei riti e
nei culti, nella tecnica e nell'arte, nei generi e negli indirizzi letterari.
Né altrimenti
accadde nel campo politico : perché anche in esso Roma assimilò, ma rivisse e
rinnovò profondamente i sistemi, durante la sua lunga e tenace opera di
conquista e di unificazione d’Italia. E in ciò fu favorita da varie
contingenze, sia interne che esterne. Per le prime, ci basti ricordare: la
pacificazione progressiva, nei primi secoli della repubblica, fra i patrizi e i
plebei; la grandezza del centro metropolitano; la eccellenza del sistema
militare centuriato. Per le seconde : la debolezza e divisione degli altri
popoli d’Italia; e i pericoli comuni che, via via, facilitarono le loro intese
coi Romani.
Ma,
essenzialmente, Roma fu sorretta, nella sua missione, da un concetto più sano e
più possente dello Stato, di quanto avessero avuto tutte le città, e i tiranni,
e i venturieri che avevano tentata una qualche unificazione prima di lei. Lo
Stato romano è, fin da tempo remoto, uno Stato forte; non paralizzante, ma
dominante l’opera degli individui, e sintetizzabile col famoso motto: «salus
rei publicae suprema lex esto». E, non ignorando i tentativi anteriori, esso
volle e seppe evitarne, quello che n’era stato il difetto fondamentale.
Il sistema
politico di Roma arcaica fu più elevato ed umanitario, non solo perché
suggerito dalla continua necessità di rinsanguare i suoi eserciti; ma perché
tutti i primi ampliamenti egemonici si ebbero su genti dello stesso sangue, della
stessa razza italica, anch'esse fortemente etruscizzate e grecizzate, e, insieme
coi Romani, minacciate da pericoli comuni. Ed esso non fu semplicistico, né
tratto da alcuna premessa teorica; ma sorse realisticamente, spontaneamente, in
vari momenti; e solo col tempo i vari tipi sperimentati, vennero congegnati in
un complesso e savio organismo.
IV.
Nei primi
tentativi, Roma, secondo le contingenze, sperimentò infatti metodi diversi: ora
assorbì completamente le popolazioni delle città conquistate; ora distrusse le
città, facendone schiave le genti, e confiscandone il territorio; ora tolse ai
vinti solo una parte del territorio, e lo distribuì viritariamente ai Romani,
riuniti in tribù rustiche; ora strinse i popoli con alleanze, più o meno alla
pari, che potevano giungere fino a concedere il connubio, e la cittadinanza agli
immigrati, e la compartecipazione alle colonie. Ma poi, tutti questi tipi e i loro
sottotipi, furono congegnati in unico sistema scalare, di cui erano canoni: che
le genti di ogni popolo vinto, non andavano, al momento della vittoria, trattate
in maniera uniforme e livellatrice ; ma, a seconda dei loro meriti o demeriti
verso Roma, e delle loro condizioni civili e sociali; e che, tutti,
indistintamente, i gruppi di individui, e le genti, potevano anche in seguito,
e sempre a seconda dei loro demeriti o meriti, peggiorare, fino alla confisca
dei beni e alla schiavitù delle persone; o migliorare, fino alla concessione
della piena cittadinanza romana, ossia della piena uguaglianza di diritti,
massima delle ricompense.
L’aver
concepito la possibilità di concedere al nemico vinto la cittadinanza, senza
ricorrere al suo trapianto di fatto nella città di Roma (come nei sinecismi
greci e siciliani) ; e non solo per lo scopo di rinsanguare demograficamente
l’urbe e le sue legioni, ma anche per motivi etici, è un enorme progresso, di
fronte a quanto il mondo antico, sia orientale, sia greco, aveva saputo
congegnare, per la saldezza e la moralità dello Stato.
E tutto il
sistema scalare ben può dirsi nazionale, nel senso più nobile della parola:
poiché esso tendeva, non unicamente alla conquista e al dominio, ma alla
fusione, all'assimilazione, di tutte le genti riunite politicamente. Di fatto tale
sistema scalare, che permetteva ad ognuno di poter gradatamente salire, fu la massima
e più stabile causa e garanzia della fedeltà dei sudditi, e del loro regolare
concorso di uomini e di tributi; e, ove fosse stato applicato di continuo, a
lungo andare avrebbe portato, da sé solo, alla fusione politica completa, alla
uguaglianza di diritto delle genti unite da Roma; al passaggio graduale, prima,
in Italia, dalla città alla nazione, poi, nel Mediterraneo, dalla nazione all'Impero.
E da questo
sistema derivò anche una delle più meravigliose caratteristiche etniche e
culturali di Roma stessa; poiché essa si andò sempre più trasformando,
demograficamente, nel vero centro di un’Italia avviantesi a nazione, in quanto,
materialmente, la sua popolazione venne ad essere costituita anche con gruppi
di genti delle varie parti d’ Italia, che avevano ottenuta la cittadinanza; e
la città, via via che accoglieva cittadini nuovi, si allontanava dalla
originaria ristretta latinità, affermandosi come sintesi etnica, c culturale,
degli elementi italici di tutte le regioni.
D’altra parte,
mentre Roma si italianizzava, l’Italia andava romanizzandosi: ma senza sistemi
coattivi e violenti. Le varie parti del continente italiano, .successivamente
conquistate, prima quelle popolale da genti italiche o a fondo italico, poi
quelle etnische, greche o grecizzate, celtiche, liguri, venete, iapigie,
fenicie o fenicizzate, tanto diverse fra loro, non furono, né lasciate in balia
di se stesse, né livellale a forza, cercando di imporre un’unica facies. Roma rispettò, in genere, le
manifestazioni del regionalismo naturale: mentre si oppose, vigorosamente, a
quello contingente, storico, politico. Per lei v’erano unità e peculiarità da
spezzare, ma altre da rispettare, altre ancora da creare. Essa seppe rifuggire
da tutti i ciechi livellamenti, coattivi e negativi, alla orientale.
Pochi furono
quindi i divieti da lei imposti ai vinti; tra cui fondamentale quello di non
rinnovare nessuna lega politica regionale. Le varie città e genti di ogni
popolo, furono, distintamente, disposte secondo i vari gradi di quella condizione
giuridica scalare, che orientava tutti su Roma, e a tutti offriva, come masssimo
premio raggiungibile, la cittadinanza romana. E questi neocittadini di ogni
terra, insieme coi Romani e Latini, stanziatisi, o come coloni, o altrimenti, nelle
varie regioni, costituirono i primi nuclei di irradiazione per il
romanizzamento.
Roma, di
fatto, concepì il popolamento delle zone conquistate, che d’altronde mantenne
sempre in proporzioni relativamente ridotte, o come semplice trapianto
coloniale di gruppi di cittadini romani, o di alleati italici, di Latini, che
vi dovevano vivere da soldati e coloni, usando il pilo e la zappa, rimanendovi
perennemente, senza perdere i loro diritti di cittadini romani o latini; oppure
come occupatori di terre confiscate, cedute in possesso precario (agro
pubblico); o infine come liberi commercianti, appaltatori, affaristi. Non
conobbe, e non permise Roma, né allora, né in seguito, l’emigrazione di
cittadini poveri in terre non dipendenti da lei, e quindi destinati a perdere
prima o poi i propri rapporti colla patria, come fu della maggior parte delle
colonie greche, e di tante colonie di emigranti dell’Europa moderna. Né
concepì, come alcuni imperi moderni, la distruzione della popolazione indigena
di un paese, per sostituirla con propri coloni.
L’opera di
romanizzamento, ottenuta senza grandi trapianti di coloni, ma essenzialmente
colla propaganda morale e culturale di piccoli gruppi, fu quindi tanto più
mirabile : essa poté aumentare, in proporzione dell’opera di quei nuclei, fino
al riconoscimento della raggiunta fusione e unità nazionale di tutti gli indigeni.
Il risultato fu che gli Italiani si sentirono finalmente uniti dalla natura,
dalla storia e dalla volontà di Roma, in unico e cosciente sviluppo materiale e
spirituale.
Ma tutto ciò
avvenne lentamente, senza troppe imposizioni; permettendo ad ogni gente di
conservare le proprie peculiarità, il proprio regionalismo più intimo, non
pericoloso allo Stato, e connaturato colla propria indole, origine, e grado di
civiltà.
E così in ogni
parte d’Italia, in cui la popolazione rimase, nella grande massa, quella
indigena, Roma permise di conservare, fino a cessazione spontanea, di fronte al
lento e graduale romanizzamene, gli antichi dialetti e le lingue letterarie;
permise la celebrazione dei vecchi culti, (che, di fatto, non furono travolti
che col trionfo del Cristianesimo); l’amministrazione comunale, per opera di
magistrati locali; la conservazione di usi e costumi indigeni, e di parte delle
tradizioni giuridiche locali (non solo nelle città alleate); la formazione,
nell'esercito, di reparti di uguale provenienza regionale.
E così, pure
potendo romanizzarsi a pieno politicamente, ogni parte d’Italia mantenne un
tanto delle sue caratteristiche etniche, preromane. La grandiosa opera,
compiuta da Roma repubblicana, per riunire tutti gli abitanti del continente
italiano in una sola nazione, in cui però l’antica complessa compagine etnica potesse
ancora trasparire come forza presente e operante; variamente nelle singole
regioni, era ancora ben visibile, come vedremo, allorché Augusto, determinando
il sistema amministrativo dell’Impero, fissò i confini delle undici regioni
formanti 1’Italia, facendoli coincidere, in gran parte, cogli antichi confini
etnici dei popoli preromani vinti e unificati.
V.
Ma il processo
di unificazione nazionale dell’Italia, non solo non fu così rapido come quello
di conquista militare, ma fu anche soggetto a titubanze, e a cambiamenti di
indirizzo.
Più precoce, e
continua, e assecondata dalla dominatrice poté essere l’unificazione della
penisola, dall'Appennino Tosco-Emiliano allo Stretto, già compiuta,
militarmente, nel 264 av. Cr. La saldezza dell’edificio pareva già tale, in
quello stesso III secolo av. Cr., da potere precocemente superare due terribili
prove di collaudo: gli sforzi logoranti della I guerra Punica; e l’assalto
audace e durissimo di Annibale, che, per 14 anni, percorse in tutti i sensi la
penisola, specie nelle zone di più recente conquista, colla speranza, alla fine
quasi in tutto delusa, di distogliere stabilmente da Roma i sudditi e gli alleati.
Queste prove
di fedeltà avrebbero dovuto, logicamente, portare ad una più rapida e generale
concessione di cittadinanza, secondo il già descritto sistema scalare.
Ma quel generoso
e oculato sistema veniva oramai attuato sempre più lentamente, man mano che,
procedendo le conquiste, l’essere cittadino romano era venuto a significare,
non solo dover dare, ma poter prendere, non solo esporre la propria vita e le
proprie sostanze per la difesa e per la gloria dell’urbe, ma anche venire a
disporre di una sempre più tangibile somma di diritti, di agi e di privilegi,
tributari, militari e commerciali, oltre alla partecipazione al possesso dei
terreni demaniali conquistati.
Da allora il
popolo romano andò sempre più a rilento nel concedere la cittadinanza, anche agli
abitanti dalla parte peninsulare del nostro paese, ossia alle genti italiche.
Per constatare
l’acuirsi di questa riluttanza, basti notare che mentre le aree relative dei
territori annessi e dominati erano, nel 350, rispettivamente di 3.100 e 3.010 Km ; e nel 338 di
6.000 e 5.000; per il 300 risultano già di 8.100, e 19.400; nel 280 di 20.000 e
62.000; nel 264 di 25.000 e 105.000. Gli stessi risultati si deducono dal
rapporto per le forze armate, disponibili nel 225 av. Cr., formate da 325.300
romani, e 423.000 alleati; ove si rifletta, che gli alleati ponevano a
disposizione di Roma una percentuale assai minore della intera popolazione, di
quel che Roma stessa traesse dai territori annessi.
Più tarda di
quella peninsulare fu la conquista, l’unificazione politica, e quindi, tanto
più, quella nazionale, della zona appenninica e padana: iniziata nel 238,
annullata dalla discesa di Annibale, ripresa nel 201, e completata,
militarmente, nel 119, ma civilmente solo ai tempi di Cesare. E anche qui il
collaudo vittorioso si ebbe quando vi scesero, per esservi schiacciati, i Cimbri,
prima avanguardia dei futuri invasori Germanici.
Ma, fin dal
241 e successivi, Roma mostrò di non aver alcuna intenzione di unificare a
nazione altre terre, che non fossero quelle del continente italiano dalle AIpi
allo Stretto: a cominciare da quelle insulari —; Sicilia, Sardegna e Corsica —;
e da quelle, fuori d’Italia, ma a lei molto prossime, complementari
strategicamente, e di speciale importanza etnica e storica, dell’Illiria e della
Narbonese. Tutte queste terre rientrarono nel nuovo sistema provinciale, di cui
diremo appresso. Erano così poste le prime basi di un Impero di Roma.
E tuttavia
anche in quelle prime zone, ma specialmente in quelle insulari, il processo di
unificazione nazionale si operò, lentamente ma ugualmente, all’infuori di una
stretta unità politica e, per un certo tempo, all’infuori della volontà di
Roma. Contribuirono gli eventi storici e la spontanea volontà e tendenza delle
genti; la loro affinità etnica con quelle della penisola italica (essendo i Sardi
e i Corsi affini ai Liguri; gli abitanti della Narbonese anch'
essi in parte
Liguri e in parte Celti; gli Illiri affini ai Veneti; e gli abitanti della
Sicilia avvicinabili, gli uni ai Liguri, gli altri agli Italici, i terzi ai
Greci dell’Italia meridionale) ; la vicinanza geografica; i più numerosi scambi
commerciali; i più facili stanziamenti e trapianti di Italici.