Anna Maria Ortese: Il treno russo, I passeri del Cremlino




Ultima parte del bellissimo lungo racconto della Ortese
Copie ancora disponibili sul sito dell'Editore
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4. I passeri del Cremlino

II tempo, che nelle ultime ventiquattro ore sembrava diventato eterno, comincia a passare con rapidità fulminea.
Appare in fondo al corridoio l’ufficiale russo, con la sua criniera bionda e un sorriso dolce, triste, e mi ricordo che questa è l’ultima volta che farò colazione con lui. Lo seguo al ristorante. Qui fa caldo, l’atmosfera è mutata: scomparsi Liza e Sergio, rivedo ogni cosa nella sua opprimente realtà fisica. I tavoli mi appaiono disadorni; l’insalata di cetrioli mi nausea, il caviale mi scoraggia come un’assurdità. Sbriciolo il pane nero, chiedo birra, acqua minerale. Bevo, guardo fuori dal finestrino e faccio uno sforzo enorme per trattenere le lacrime. II mio compagno mi fa tanta pena. Per ragioni diverse dalle mie, anche lui sta male, ma non può parlare, esprimersi. Al posto dove, fino a ieri sera, splendeva così graziosamente Liza, viene a sedersi la cameriera giovane con le gengive scoperte. Ninocia (così sento chiamare questa ragazza da una cameriera più  anziana, che va e viene dalla cucina), m’investe di premure, in un chiaccherio fitto fitto, e per me incomprensibile. Perché non voglio questo? Perché non voglio quell'altro? Mangiare, bisogna mangiare molto. Parla, e lancia furtive occhiate a Pietro, occhiate umili, da donna.
Pietro non le bada, non bada a nessuno. Ninocia si alza, va al tavolo dietro di lui, si ferma a parlare con uno dei due giovani alti, dall'aspetto quasi elegante, che sono sempre stati seduti là. Vedo una bella faccia dal taglio nitido, di medaglia, voltarsi e guardarmi; poi il giovane si alza, si avvicina al nostro tavolo, saluta 1’ufficiale e me, e siede posto di Ninocia, che rimane in piedi, piena di curiosità, ad ascoltare.
Tra me e il giovane si svolge un dialogo. La lingua e francese - un poco - e spagnola, anche italiana, una lingua di tre colori, come un bicchiere infranto - tanti pezzetti, eppure stranamente comprensibile, limpida.
«Chiedo scusa, ma sento che fate parte di una delegazione. Posso esservi utile?».
«Grazie. Fra poco sono arrivata, e credo che verranno a prendermi».
«I1 vostro viaggio dev'essere stato lungo. Venite da Roma?».
«Sì. Ho attraversato 1’Austria e la Cecoslovacchia».
«Nessuna difficoltà?».
«Ho avuto sete».
«Qui, da noi, non ci sono ancora tante comodità. Voi vivete a Roma?».
Dopo avergli sentito due volte nominare Roma, capisco con tutti i miei nervi che egli desidera sentirne parlare, ma non può dirlo (non può dirlo per orgoglio o pudore, non so).
«In una città vicina».
«Noi, in Unione Sovietica, conosciamo un poco le vostre città attraverso il cinema. Ammiriamo molto il vostro cinema».
« È il cinema neorealista», dico.
«Non so», dice.
Subito turbato, ma non si riprende. Mi guarda pazientemente. Mille volte, in Russia, di fronte a una parola il cui significato non era completamente comprensibile, ho visto questo sguardo, come di uno che dica: «Spiegati, ti prego, desidero capire perfettamente». Specialmente i giovani avevano questo sguardo: cosa fanno gli altri popoli? Cosa significa questo? Quello? E tutto ciò con una calma, una dignità assoluta, ma anche una volontà intensa.
«Penso che neorealismo voglia dire questo», cerco di sorridere. «Un regista italiano sale su questo treno, sa che è un treno dell’Unione Sovietica, e perciò molto importante, perché c’è dietro tutta la storia dell’Unione Sovietica, ma per dare il senso del treno, cioè della vita, lui deve guardare tutti i particolari che si trovano su questo treno, che fanno il treno intero (col suo significato), e che a volte possono essere deludenti, e sembrare in contrasto con la bella idea del treno, con l’idea di ciò che vorremmo fosse un treno».
«Capisco», dice.
Ma so che lo scopo gli rimane ancora oscuro, da come mi guarda.
«Lo scopo e dare il senso della vita, attraverso una somma di particolari. I particolari sono forse cattivi, il senso è buono. E c’e anche un altro scopo, nel registrare tante cose: farle migliorare. O, se per qualche motivo non possono ancora migliorare, la gente sia al corrente di questo. Così sia informata sinceramente di tutto quanto riguarda il proprio paese, delle condizioni economiche, morali, di tutto».
«Voi avete studiato?» mi dice.
«Un poco».
Per qualche momento il mio interlocutore non mi guarda. Ha gli occhi intenti, assorti.
«Delle cose, a noi piace soprattutto il lato buono».
E, a un tratto, una domanda: «Che cosa, finora, vi ha dato più  fastidio nel nostro paese?».
È una domanda molto frequente tra quelle che si rivolgono al forestiero, in Russia. Ve la rivolgono dirigenti, studenti, artisti: e piena di nervosismo, d’amore.
«Potrò dirvelo quando anche voi potrete dirmi cosa vi è dispiaciuto in Occidente. Desiderate vedere l’Italia?».
Non parla, abbassa leggermente il volto.
«Ho viaggiato abbastanza, ma sempre in Unione Sovietica» dice. «Devo ancora studiare. Sarò ingegnere elettronico».
Pietro ci versa da bere.
Guardo queste due Russie: sono così lontane, eppure non si urtano. Una selvaggia, taciturna, severa; l’altra cosciente, avida di sapere, ugualmente severa. Sono diverse come la notte dal giorno, il colore dalla linea, il fuoco dalla luce, eppure sono la medesima Russia.
Vedo gli occhi di Ninocia, pieni di quella misteriosa gioia, tra noi. Splende per avermi potuto procurare questo colloquio, di cui non ha potuto afferrare nulla. Quasi si è dimenticata di Pietro: sapere, poter sapere!
Dopo un po’, lo studente si alza, lascia il nostro tavolo e torna al suo posto. Vedo che ogni tanto, quasi timidamente, mi osserva: molto serio.
Anche l’ufficiale si alza: assente, freddo, ma, prima di andarsene, la sua mano si posa per un attimo, leggermente, sulla spalla come un chiodo di Ninocia.
I corvi annunziano Mosca.
A due passi dalla capitale, si moltiplicano i corvi, i prati, si allarga la luce del sole.
Si incominciano a vedere le case.
Sono alte, nuove, piene di finestre, forme geometriche che si lanciano nel cielo.
Si vedono anche case vecchie, forse povere case popolari, dalle facciate scure, depresse. Si vedono cupole dorate e, nelle strade, sfilano lunghe macchine nere, che si direbbe non debbano fare alcun rumore.
II cielo non e grigio ne azzurro, e uniformemente argentato.
Mi precipito nel mio scompartimento a chiudere le valigie. Urto continuamente negli Ivànovic che non mi guardano.
Lucia ha gli occhi rossi - Nicola e molto affaccendato intorno a una piccola pentola verde, nuova - che non vuole rientrare nella valigia da dove momentaneamente l’ha tolta; vedo anche altre stoviglie.
Improvvisamente, il treno è fermo, la luce è meno viva perché ci troviamo in stazione, e il corridoio è pieno di gente.
La nostra vicina di scompartimento, una donna d’età, bionda e apatica, sembra addirittura sconvolta, mentre stringe al petto una ragazza sui vent'anni, vestita di cotone a righe, con la treccia sulle spalle. Non vedo il volto della ragazza, nascosto sul petto della donna, ma la donna sì. Sembra che gliela vogliano portare via. Grida parole indicibili, singhiozza, le palpa le braccia, le spalle, come per convincersi ch'è ancora sana.
L’ufficiale calvo e letteralmente trasformato, sembra pazzo di gioia, o ubriaco, mentre solleva tra le braccia, tenendolo al disopra della sua testa, un bimbo di pochi anni, che ride e piange guardandolo coi piccoli occhi meravigliati. Una donna in giacca da uomo li precede verso l’uscita, carica di valigie.
Passa Pietro, e mi getta uno sguardo vago, come se non riuscisse a vedermi, ma mi sentisse. Poco dopo e sul marciapiede della pensilina. Sembra urtare dovunque. Non lo vedrò più.
Mi ricordo del fazzoletto di seta che dovevo regalare a Lucia, lo tolgo da una borsa e, vedendomi davanti Nicola Ivànovic, gli dico: «Per Lucia». Egli mi guarda confuso. Mi giro, vedo Lucia singhiozzare e gemere ed essere tutta scossa da sussulti, mentre chiude le braccia intorno alia testa di un vecchio. Questo vecchio e certamente suo padre, perché le somiglia, ma e anche come suo figlio: ha un’espressione quale ho visto soltanto negli angeli della pittura toscana: co- si soave e pura da sembrare che non appartenga più  a questa vita. Le sue guance sono rosse, i capelli lunghi e candidi, gli occhi celesti. Indossa, sui calzoni, una camicia bianca, col collo tondo, ricamata di rosso, stretta alia vita da una cintura di pelle.
Annunzia una sventura, una gioia? Una morte o una nascita? Qualcosa di grande, certo, perché Lucia Ivànovic non si riconosce più. Piange, al collo di quel vecchio, lacrime ardenti, come vedesse davanti a se rifluire intera la prpria vita.
Ricordo che, improvvisamente sola, col cuore oppresso dalle emozioni di quella semplice gente, turbata da gioie e affanni che, quasi per un misterioso confondersi delle personalità, mi sembravano cosa mia, passando in quel treno straniero, dove nessuno, tuttavia, mi era più  straniero, sentivo che la paura dell’ignoto ancora una volta si dileguava. Io credevo di scendere alla stazione di Roma o Milano. Pensavo «Mosca», e non capivo che differenza ci fosse più.
Sentendomi chiamare per nome, quasi con un grido, mi ricordai dell’esistenza della delegazione. II grido era affettuoso, e la voce giovane, appena velata.
Due donne, una vecchia e una giovane, venivano avanti a fatica nella ressa del corridoio. La prima aveva un fazzoletto sui capelli, era minuta, pallida, nervosa, con due neri occhi pieni di una luce febbrile, e sorrideva in silenzio. La giovane era grande, bionda, con un viso largo coperto di una rete quasi evanescente di rughe, e occhi celesti, dallo sguardo strano, pieno d’intelligenza, e insieme mite, amoroso.
La giovane aveva tra le braccia un grande fascio di fiori, e me lo porse.
Ma prima di porgermelo mi prese le mani.
Anche la donna anziana mi prese le mani e se le portò al cuore.
Tutte e due queste donne erano vestite in modo modesto, quasi povero, e avevano sul volto, benché di età e sentimenti diversi, quella stessa accorata semplicità, quella gravità modesta e dolorosamente raggiante che si nota tanto spesso sui volti delle nostre contadine, e che non è mutata da secoli. Allo stesso modo, sembravano impacciate.
Salimmo in una macchina molto grande, nera, lucida: la donna anziana alla mia sinistra, la giovane a destra. Anch’io ero abbastanza impacciata, non parlavo, perché questo era il primo contatto con la delegazione. Una delegazione quasi tutta comunista, dove molte, non m’illudevo, sarebbero state le riserve, forse gli attriti, davanti alla diversità di opinioni.
«Mi lasci portare i fiori», mi disse la giovane mentre la macchina si muoveva, «forse le pesano», e, benché io creda alla grazia delle contadine, mi meravigliai di un accento così puro e una grazia cosi rara.
Spalancavo gli occhi per vedere tutto, ma, purtroppo, non riuscivo a vedere nulla di particolare. L’ingresso nella città era come quello di Milano, Roma, quasi anonimo, con quelle ampie strade e piazze limitate da palazzi e case alte, alla base dei quali sporgevano le insegne dei negozi con le diciture, però, scritte in caratteri cirillici. Come avevo letto mille volte, nei reportages, i negozi, salvo quelli di libri e di pellicce, avevano un aspetto disadorno, come spento, e la gente che camminava sui marciapiedi, benché non avesse nulla d’indecoroso, era vestita generalmente in modo dimesso, con abiti di vecchia foggia, sbiaditi e, quelli femminili, senza nessuna linea che accentuasse o rivelasse delle forme. Questa fu una cosa che mi colpì subito, insieme al silenzio e alla calma del traffico, niente affatto limitato, a giudicare dalle lunghe colonne di macchine private e di taxi. Ma nulla faceva rumore. Insieme a questo silenzio, mi stupirono le trecce dorate delle donne. Ogni essere femminile, dalla bimba alla donna di età, aveva due lunghe trecce pallidamente dorate oppure rosse, avvolte intorno alla nuca, mentre a qualcuna, specialmente se con i libri sottobraccio, scendeva fin sulle reni una pesante coda d’oro.
Nel camminare non andavano di fretta ne adagio, e le voci che mi giungevano attraverso i finestrini aperti avevano tutte, benché non comprendessi nulla, qualcosa di argenteo, di calmo, una vibrazione tranquilla.
Vedevo, mentre osservavo queste cose, i piccoli occhi della donna anziana posarsi con ansia su di me. Non soltanto ansia. C’era, insieme a quel lampo incerto di gioia delle persone che hanno molto sofferto, e che non riescono mai completamente a sorridere, un tenero orgoglio, non so che oscurità di madre. Essa rimaneva presso la mia spalla, al di sotto della spalla perché era più  piccola di me, come una madre vecchia che ha aspettato per molti anni il figlio, e non può parlare, con quella stessa timidezza, quella umiltà gloriosa.
La giovane, parlando, aveva una espressione ironica, ma non meno appassionata. Disse, con la voce piana, velata:
«Così, questa e Mosca. Una buona città».
«Penso che possa piacermi», dissi gentilmente.
«Me lo auguro. A1 suo posto, pero, io avrei una gran voglia di piangere, e questo non avrebbe nulla a vedere con la città. Non ho mai potuto lasciare mio marito e mia figlia senza sentirmi spezzare il cuore. Le nuove generazioni sono più  fredde»
«Non è che sia molto allegra», dissi sforzandomi di sorridere. «Ma è più  forte lo stordimento, almeno per ora».
A1 mio fianco, la donna anziana si rivolse vivacemente alla bionda, e pronunziò rapidamente due o tre parole, guardando me con un sorriso. Io rimasi sbalordita. Quella lingua non era affatto l’italiana.
La giovane disse: «La signora Petrova spera che lei non sia triste».
Riuscii a contenere la mia meraviglia: «Le dica, per favore, che la ringrazio».
Ancora, la signora Petrova, disse qualcosa in fretta. Poi ebbe un piccolo sorriso contento, e aspetto che la giovane parlasse.
«Anche lei, se fosse giovane, vorrebbe tanto viaggiare».
Seguirono altre due o tre frasi. Alla fine, la signora Petrova disse ancora qualche cosa, con quel suo accento rapido, quasi confuso, e la giovane: «La signora Petrova chiede se lei ha padre e madre».
Dissi di no.
A questo punto non vi fu nessuna risposta, salvo che la signora Petrova afferrò ancora la mia mano, e finché non arrivammo all'albergo non la lascio più.
Durante il resto del percorso la giovane fece quelle presentazioni di cui, non so se per eccessiva modestia o perché il suo pensiero era lontano da tali cose, non aveva sentito prima la necessità.
Seppi cosi che la signora Petrova era presidente di un Comitato Femminile (seguiva una designazione di questo Comitato, ma non la ricordo), mentre Alessandra (questo il nome della giovane bionda) era una delle quattro interpreti che il Comitato aveva messo a disposizione della delegazione.
Seppi anche un’altra cosa: che mai, da queste persone, mi sarebbe giunta una domanda indiscreta sui miei possibili sentimenti politici, mai una proposta, un suggerimento, un giudizio. Ben altri, curiosamente, dovevano essere, durante il mio soggiorno a Mosca, i nostri rapporti più  veri. Frattanto eravamo giunte all'albergo.
II Nazionale, uno dei più  noti alle delegazioni che giungono in visita a Mosca, era una costruzione massiccia, di cinque o sei piani, tranquilla, solida, imponente, con ampie sale da pranzo, lunghissimi corridoi, stanze dai soffitti molto alti, arredate nello stile del secolo scorso, piene di tappeti - di cui mi sfuggiva, credo, il valore - di divani che appariva no sciupati, di pesanti tende. Un’ampia scala, dall’atrio, saliva fino agli ultimi piani, battuta dalla luce lattea di molte finestre. Ad ogni piano, presso la balaustra, era collocato un tavolo con una sedia e l’occorrente per scrivere; ad ogni tavolo era seduta una donna grassa e, dietro la testa della donna, incorniciato di nero sul muro bianco, un ritratto di Lenin o Stalin o altro uomo politico.
Sia giù, nell’ingresso, dove Alessandra si fermò a consegnare i miei documenti, che negli ascensori o per le scale, c’era un notevole andirivieni di clienti, essendo arrivata proprio il giorno prima, insieme alla nostra, una delegazione indiana. Con vera sorpresa, vidi scendere dal primo piano, in mezzo a un violento fruscio di vesti nere, e con una splendente croce d’oro sul petto, due preti copti, alti, barbuti, con bellissime facce giovani, che chiacchieravano vivacemente. A1 secondo piano, un negro in grigio, molto elegante, saluto con deferenza la signora Petrova, mentre una famigliola indiana al completo, simile a uno stormo di colibrì, con voci sottili, meravigliosi occhi neri, le fronti stellate e lunghi veli turchini, viola, rossi e dorati, inondava per un attimo tutta la scala come una colata di arcobaleno.
Giovani cinesi, delicati come statuine, e opulenti stranieri nordici, non erano meno frequenti.
Si giunse alla porta della mia stanza, Alessandra Veniaminda girò la maniglia, mentre a Lidia Petrova scintillavano per l’ansia, fissandomi, i piccoli occhi neri: questa stanza sarebbe stata di mio gradimento? Avrei apprezzato sufficientemente le sue comodità?
Mi passò davanti per andare ad aprire le tende che ornavano la finestra.
Pronunciò in russo, mentre le tirava, due o tre delle sue rapidissime, ingarbugliate, amorose parole, che Alessandra tradusse.
«Questo e il Cremlino», disse con calma Alessandra.
Dietro il Cremlino si vedeva uno spazio immenso, squadrato, pieno di aria, tinto tenuamente di rosso, dal centro del quale, come una nave a meta scomparsa nella tempesta, emergevano delle mura rosse e delle cupole gialle e verdi, con qualcosa di dorato: la chiesa di San Basilio, nella Piazza Rossa.
Da un lato si scorgeva un pezzo del Mausoleo che custodisce le bare di cristallo dove sono deposti Lenin e Stalin; sull'altro lato, di sbieco, i Magazzini Generali.
Ma vidi tutto questo come in un velo.
Improvvisamente, non sapevo più  se ero sveglia o sognavo, se ero semplicemente stanca o soffrivo. Mentre Alessandra Veniaminda mi mostrava la stanza, che aveva un bagno e un’alcova, Lidia Petrova le mormorò qualche cosa. Alessandra Veniaminda disse: «La signora Petrova dice che lei è molto stanca... dice che deve subito riposare... ch’eè stato un errore viaggiare col treno...».
«No... davvero... non sono stanca», mi sforzai di sorridere.
Alessandra tradusse. La Petrova un po’ mi guardò amorosamente, un po’ piena di dubbio, abbassò la testa, e ancora, abbassando quella sua fine testa chiusa nel fazzoletto scuro, si gingillava, proprio come avrebbe fatto una madre in pena, con la mia mano.
Alla fine, senza soggiungere altro, uscì in fretta dalla mia stanza.
Rimasta sola, non pensai affatto a riposare, ma la prima cosa che feci fu di andare a chiudere di colpo la finestra per non vedere il Cremlino. Quando la finestra fu chiusa e le tende nuovamente accostate, mi abbandonai a una emozione malata. Con la testa sul tavolo piansi disperatamente. Volevo tornare a casa! Avevo terrore di essere così lontano, terrore di essere in Russia. II vecchio sgomento che provavo dovunque nel mondo, come se tutto fosse - senza rimedio - estraneo alla mia vita, eccolo di nuovo lì, al termine di questo lungo tremante viaggio, complicato dalla memoria confusa di tutto il sangue che era corso in questo Paese negli anni ancora incombenti della Rivoluzione.
Piangevo pensando quel sangue!
E come mi dispiacque per la Petrova, Liza e gli altri! Come ero desolata di rispondere così - ricordando e soffrendo - a quella infinita umile fraternità che mi aveva accompagnata e sostenuta per tutto il viaggio! Ma era così! Sono malata, pensai, malata di memoria del mondo.
Ma forse, anche per tutti questi fratelli - e molto più  gravemente, mi dissi - era cosi.
Poco alla volta mi calmai. Tornai alla finestra, la riaprii, e benché quel senso di strazio fosse sempre lì - strazio e rimorso insieme, come cosa di cui fossi anche io (e come? e quando?) responsabile, - era anche come velato.
Sorgeva una piccola luna, nel cielo, benché fosse pieno giorno, in un incavo di perla; sorgeva, mi parve, proprio sulla Cittadella terribile - mura rosse, ma ora sbiancate dall'afa, aeree cupole verdi e dorate - e illuminava - o cancellava? - un angolo delle tombe sublimi.
Ma né Lenin né Stalin, né gli altri visi giganteschi si vedevano più.
Vennero invece dei passeri, che forse abitavano tra quelle tombe, fino al mio davanzale, vennero strillando con grande allegria, e qualcuno si spinse fin dentro la stanza. Non sapevo che la natura fosse così amorosa dovunque! Cercai del pane da dare a quegli affamati, e intanto terrore e lacrime, guardando quei passeri, se n’erano andati, potevo nuovamente sorridere.