Adele Cambria: Nudo di donna con rovine, Pellicanolibri, 1986

Nudo di donna con rovine, è il primo romanzo di Adele Cambria, 
edito nel 1986 da Pellicanolibri, 1986, 
arricchito da una lettera di Dacia Maraini.
Ancora disponibile si può acquistare sul sito dell'Editore

Riportiamo il Capitolo Primo


Era una perfetta domenica di luglio. Quel giorno, Lucrezia compiva cinquant'anni. Nella sua stanza, Antonio suonava.
Al principio, lei non aveva capito. Anzi, le sembrava un dono, un miracolo, l'idea del suono di un pianoforte, di una tromba, nello spazio acustico della sua casa, scandito soltanto dall'ottuso pestaggio sopra i tasti della macchina da scrivere, o dall'invadente parola televisiva. Il rimorso di aver fornito al figlio, per tutto l'arco dei suoi diciassette anni, nient'altro che i desolati rumori dell'attualità, svaniva, per una volta, nell'allegria di un'illusione: che proprio suo figlio, quel figlio - ne aveva due - le avrebbe appreso la lingua celeste dei suoni, da cui, per avarizia, si era esclusa.
O affiorava ancora una volta in lei, si chiese, l'ingordigia di vivere anche le loro vite?
Era già accaduto quando li aveva persuasi, adolescenti, ad iscriversi al Partito, delegando oscuramente a loro un peso che s'era sempre rifiutata di portare. O quando, più tardi, aveva attraversato insolente i loro primi itinerari amorosi, mentre avrebbe dovuto ritrarsene (sillabava) si-len-zio-sis-si-ma.
Madre scomoda
madre anomala
Madre di transizione.
Madrefiglia
di un'altra madre
maniacalmente
nella norma.
"...Per cui ai due bambini è stato proposto un doppio modello materno, conflittuale. La lettura va completata con il rilevamento dell'assenza del padre."
La scheda perforata fuoriesce dal computer psicoanalitico. Resta la vita. Resta la scrittura. Trascrittura.
Il sette marzo Antonio era arrivato da scuola ed aveva detto che non ci sarebbe tornato mai più. Voleva studiare musica. L'estate prima se n'era andato dalla sezione rionale del Partito. Era luglio, anche allora. Il ragazzo aveva lavorato fino alle due di notte a smontare la Festa dell'Unità. Nella piazza mirabile delineata dall'austero fondale di Palazzo Farnese, al suono doppio delle fontane. Cartacce, plastica, bottiglie. Antonio aveva riempito con cura otto bidoni, ferendosi al piede su un coccio di vetro.
Anche lei tornava da una festa, quella notte. Perciò si erano incontrati. Le feste sugli attici romani: il suo vizio, il suo anestetico. Terrazze cinematografare, dove i sogni si trascinano, obesi.
Antonio le disse: - Devo parlarti. Disse che aveva strappato la tessera del Partito. E basta. Non accusò, non volle spiegare. Per la prima volta, Lucrezia lo sentì asserragliato in pensieri che non le avrebbe mai detto. Eppure il loro livello di dialogo fino a quel momento era stato ottimo e...
Si morse le labbra. Non aveva dunque più parole se non quelle, liofilizzate, del linguaggio dei genitori democratici? L'aveva subito e imposto per anni, sentendolo, in bocca, farsi tragicamente decrepito, un giorno dopo l'altro, da un giorno all'altro. Con l'avvento dell'eroina. Delle BR.
Già il primo figlio, Federico, l'aveva costretta a scacciarlo di casa. Il Tac psicoanalitico leggeva Edipo. Era venuto il padre a prenderselo. E immediatamente il suo sentimento materno s'era ibernato. Per mesi, incontrandolo al mercato, non lo riconosceva subito; doveva chiamarla lui, sorridendole tra i riccioli imbruniti, dal chiaro dell'infanzia. Si dicevano ciao, facevano la spesa allo stesso banco, poi di nuovo ciao. Nessuna tragedia, nessun dolore, neppure malinconia o almeno il residuo della lunga guerra d'amore che avevano combattuto ad armi egualmente impari e sleali: lui, maschio e bambino: lei, donna e adulta.
Il profilo di Federico, sbilenco e inanellato nel sole, in corsa sulla riva di canne ed alghe del lago vulcanico.
Una mandria di vacche avanzava mansueta verso la sua Cinquecento turchese, parcheggiata male sull'erba.
- Te la sposto io, mamma, non ti preoccupare...
Il bambino si mise al volante. Dolores, ridendo,
gridò:
- Lo vedi che sei una pazza? Far guidare la macchina a un bambino di undici anni! Ti pare che non piacerebbe anche ai miei figli? Ma, cara mia, io sono una madre seria... Non si azzardano neanche a chiedermelo!
L'amica stava a gambe larghe sull'erba, erano così diverse, salvo che per il fatto di vivere sole tutt'e due, e con figli maschi. Passavano insieme le domeniche con la tribù dei loro bambini - ed altri, figli di madri pigre - lontano dalla città. Era prima del femminismo. Era prima, le sembrava, anche dell'approvazione della legge sul divorzio. Insomma, era prima. E, dopo, aveva incrinato la loro amicizia, penetrandola di malessere, la scoperta che la solidarietà tra donne è un fatto politico. Loro due l'avevano vissuta spontaneamente in quegli anni sul terreno comune, forse nemmeno identificato, certo mai - allora - verbalizzato, di una maternità meridionale di ventre, di radici e liane intrecciate e resistenti. Al fondo di una emancipazione, questa sì eguale e diversa, nell'una e nell'altra; perché nell'amica era spregiudicatezza quotidiana tutta naturale, alimentata da un carnivoro egoismo, cui i figli venivano associati come se mai si fossero staccati dal suo grande corpo: e quindi provvedeva per sé, provvedeva per loro, godeva per sé, godeva per loro; e l'assenza di rimorsi, le consentiva sicurezza ed autorità. Per lei, al contrario, l'emancipazione era guerra guerreggiata d'ogni momento, senza un filo d'umorismo, dicevano... E il tremore? Martellava slogans sulle nuche tenere dei figli, una madre nuova per figli nuovi.
E non sarebbe bastato, ovattare le idee d'una doppia coltre tiepida, protezione d'amore: se li amo di più, saranno più forti, e potranno permettersi di non essere come gli altri.
No, non sarebbe bastato a salvarli da una società che non li riconosceva.
- Ma lei, mia cara, prende tutto troppo alla let­tera!
Non aveva più dimenticato la sfavillante ironia di quegli occhi blu maiolica, quando li aveva finalmente incontrati, nel sole circoscritto e nitido di una piazza romana e lei, alla bocca dello stomaco, sentiva premere e dolere il grumo delle pagine giallopaglia, Le Deuxieme Sexe, edizione Gallimard millenovecentoquarantanove: allora aveva osato chiedergliene conto, riconoscendo, nell'idolo venerato, la maestra della sua individuale sconfitta.
- Credevo che davvero per essere autonoma una donna deve guadagnarsi da vivere ogni giorno, anche se è incinta, anche se è malata... Anche se ha un marito che l'ama.
E l'altra le aveva rinviato, da lidi supremi e inaccessibili, non più del soffio di una battuta mondana: - Mais vous-savez, ma cherie...
Inchiodandola al macigno della sua stoltezza.
Le donne in quell'estate del millenovecentosessantanove già avevano cominciato a chiamarsi impazienti l'una con l'altra, cercandosi nel buio delle catacombe patriarcali, ma Simone De Beauvoir soltanto qualche anno dopo avrebbe confessato: "Sì, anch'io, avendo giocato più o meno un ruolo di donna-alibi, ho creduto a lungo che certi inconvenienti dovuti alla condizione femminile, dovessero essere taciuti o comunque eliminati senza scalpore".
Così, racchiusa nel riccio spinoso delle idee, Lucrezia sentiva di non averne mai saputo liberare la dolcezza, il sapore della castagna.
Nel bosco di Castelnuovo di Porto avevano raccolto molte castagne, i ragazzi, prima di andare al lago, in quella domenica ottobrina. E lei guardava l'amica espandersi nell'erba in un trionfo di carni mature e vellutate, e risa e stoffe zingaresche. Avevano fatto l'ultimo bagno, prima della riapertura delle scuole.
- Vi ho visti, sai, te e Federico in acqua sul materassino... Un flirt indecente!
E rideva, Dolores.
- Mamma, ho l'Edipo felice, c'è scritto qui... Dubbioso, il ragazzo creolo porgeva alla madre un foglio di giornale. E quando visitavano insieme le chiese, la domenica mattina, madre e figlio, a riguardare affreschi, era lo scandalo, la riprovazione, nel cerchio colto delle loro amicizie.
- Mamma, devi trovarmi subito un'altra casa, oggi. Ho il complesso di Edipo.
La voce fanciullesca di Federico reclamava da un telefono a gettoni. Era appena uscito dallo studio dello psicoanalista, nelle cui mani lei stessa l'aveva consegnato, quando s'era fatta implacabile la persecuzione, la guerra, che egli, infantile e spietato, le muoveva. Voleva salvarsi, voleva salvarlo, voleva espiare?
L'occhio ridente, trillante, azzurro, il ricevitore incollato all'orecchio paffutello, un cherubino molto furbo, questo era l'analista che lei aveva selezionato con cura.
- Ma che cosa vuole che sia una madre un po' scopereccia?
Non aveva mai ottenuto altra risposta, mentre gli scaricava davanti, a bracciate, le macerie della sua vita, perché vi decifrasse, tra calcinacci e rovine, i dolori del figlio adolescente.
O era esibizionismo, il suo, invadenza - l'ennesima - nello spazio inviolabile d'una personalità in crescita? E perciò l'analista aveva usato le parole turpi come un bisturi, per recidere, in lei, da lei, la parte infetta che ammorbava il figlio?
- Ma che cosa vuole che sia una madre un po' scopereccia?
Il colpo di bisturi.
- Ma che cosa vuole...
E, strizzando l'occhio, allungava la mano.
Colpa sua che gli aveva raccontato peccati. Ho degli amanti. La notte faccio l'amore con loro nella mia casa. Li obbligo ad andare via prima dell'alba per paura che i ragazzi si sveglino. O perché non desidero, io, svegliarmi pacificata nel mio grande letto, insieme a un uomo?
- Quando Federico aveva sette anni, una notte voleva dormire con me.
Una foto recente di Liliana Arena, da Pellicanolibri
Eravamo al mare: guardando le onde dal molo, il bambino disse: - Certe volte, mamma, le onde si portano dietro i capelli bianchi, non è vero?
- Quella notte, dottore, Federico disse che voleva dormire nel letto grande. Fece un lungo capriccio. Fino a quando io... Gli dissi che non poteva... Perché nel letto della mamma dormono i suoi amici.
E non era neppure vero, allora, Federico, te lo giuro. Lo dissi per lo spasimo incontenibile di proclamare una libertà che non ero capace di prendermi. Enunciavo un manifesto stentoreo di emancipazione, un delirio verbale... E che senso di vergogna a riprovare, ora, tra le labbra, il sapore di quella parola oscena... Nemmeno il coraggio di dire amanti. Il coraggio di spingere la brutalità, la violenza contro di te, bambino, fino in fondo.
L'unica scusa: ero sola. Le donne, le altre, le altre simili a me, ancora tacevano. Non potevo riconoscerle, non mi riconoscevano.
Risentiva le mani piccole del figlio aggrapparsi ai seni avari, da cui non aveva avuto nemmeno una goccia di latte:
- Ed io te li taglio, tutt'e due, prima questo e poi quest'altro...
Il veterinario preparò l'iniezione. Signora, se non vuole guardare non guardi. Il corpo del gattino tigrato si irrigidì, giacque. Lei non guardo più. Federico l'aveva chiamata dal telefono a gettoni, la mattina presto. Da otto giorni abitava solo, in una casa senza telefono, seminterrata, stipata di mobili esotici che il padre aveva accumulato in mille anni di viaggi, disseminandone case che non avrebbe abitato mai, lui, l'ex legionario, sempre altrove. Ed ora suo figlio dormiva in un gran letto matrimoniale di bambù, Lucrezia l'aveva appena intravisto, sapeva che le era proibito vedere il luogo dove, prescritto dall'analista, egli avrebbe dovuto intraprendere il suo itinerario verso l'autonomia. Svezzarsi da una madre che non lo aveva mai allattato.
Ma il figlio l'aveva chiamata, vieni a prenderti il gatto che mi ha regalato Olga, ieri sera scendendo i gradini l'ho pestato, non lo avevo visto, e tutta la notte ha miagolato, non vuole il latte, ho paura di avergli fatto molto male. Vieni tu a vedere.
Così era andata: e non poteva, e non doveva.
Il gattino tigrato aveva la schiena rotta. Stava nel suo cesto e li guardava - lei, il figlio - con gli stessi occhi celesti di Olga.
Gli occhi di Olga specchiavano i suoi di trent'anni prima.
Disse il figlio con ira:
- Non so perché mi abbia regalato questo cazzo di gatto.
Lei azzardò, già convinta di sbagliare:
- Ma per farti compagnia!...
- Non ho bisogno di compagnia! Lei e quella stronza della sua famiglia, cattolici di merda, che per passare una notte fuori di casa deve inventarsele tutte...
Urlava.
- Ma questo non ti riguarda, hai capito? Tu hai fatto la mia infelicità, tu hai rovinato la mia storia con Olga, tu hai rovinato la mia vita.
Ne era così persuasa che non poteva sentirglielo dire senza gridare forte il dolore, e, nonostante, pativa l'ingiustizia dell'accusa: allora chiamava in scena l'altro, il padre. E li riallacciava la spirale della loro inerme reciproca violenza, madre e figlio avvinghiati senza scampo, ondeggiando sotto i colpi di frusta che l'invisibile mano del d97’87ominio vibrava da secoli contro la minaccia di un'alleanza ai suoi danni.

Dopo, raccolse il gatto moribondo nel suo cestino e disse che sarebbe andata subito a cercare un veterinario, che l'avrebbe salvato. Ma non c'erano veterinari. Era la prima domenica d'agosto, la città vuota. La notte il gatto non si lamentava più. Lo tastò, lasciandolo scivolare nel cavo delle mani, per sentire se era vivo. Palpitava, piccolo, tenero, stra­ziato. Il lunedì mattina lo portò alla Lega per la Protezione degli animali. L'uccisero con una iniezione di curaro.

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